LA LUCE IN SALA


FOTOGRAMMA/PENSIERO #21: I FIORI DELLA GUERRA
13 febbraio 2014, 8:49 PM
Filed under: Fotogramma/Pensiero

I FIORI DELLA GUERRA(The Flowers of War, Cina, 2011, Zhāng Yìmóu)

Il falso prete (inizialmente solo per convenienza, poi per altruismo), che “ricorda il catechismo qualche volta quando è ubriaco”, innalza una preghiera molto vera quando diventa eroe, pregando – sfumatura non scontata – per gli altri.

Occorre accontentarsi, insomma. Qualche parola in più, vista l’occasione alquanto rara di un prodotto cinese che tocchi la Chiesa, val la pena di dirla. Ammesso che di “tocco” si possa effettivamente parlare. Per me che non riesco ad essere un estimatore del cinema dell’estremo oriente, il film è infatti interessante soprattutto per l’approccio scivoloso – ben circostanziabile – a questo spinosissimo argomento: nel 1937, anno in cui si svolge la vicenda, la Chiesa era ancora libera; la sua effettiva messa in clandestinità a causa del Partito comunista si avrà con la creazione dell’Associazione patriottica cattolica cinese, vent’anni più tardi.

Stando al film e al libro da cui è tratto (che non conosco), la vicenda dovrebbe essere reale. Non entriamo nel merito del controllo esercitato dal governo sulla Repubblica popolare, ma limitiamoci a constatare il colpo di fortuna toccato ai vari narratori: una vicenda che si svolge nel contesto di una chiesa con annesso collegio, completamente priva di personale religioso (l’unico sacerdote è morto prima dell’inizio della storia e non c’è nemmeno l’ombra di una suora, un diacono o cappellano, un insegnante… il cuoco, “Gu”, è scappato prima che potessimo vederlo). C’è solo un giovanissimo factotum con peso religioso/spirituale pari a zero. Molte scene si svolgono all’interno della chiesa, un edificio architettonicamente convincente, ma buio, spoglio e desolato. E va bene che fuori infuria il massacro, ma la penombra è tale che il presbiterio è a stento riconoscibile; e se voleste vedere il tabernacolo dovreste scrutare attentamente una monolitica sagoma petrigna grigio-nera che suggerisce l’idea di un altare senza soffermarsi a confermarla. Eppure la luce non è affatto ingenerosa, nutre anzi gli estetismi esasperati del regista rendendo cangianti le vetrate, illuminando il rosone/occhio di bue rigorosamente decorato a motivi geometrici. In realtà non è che l’interno della chiesa non sia convincente, non sia arredato come dovrebbe essere arredato, ma il regista è abilissimo a trascurare di farlo notare. Tutto ciò si ripete nelle manifestazioni spirituali: la preghiera prevede solo le mani giunte. Genuflessioni? Segni di croce? Rosari et similia? Scordateveli. Non ci si toglie nemmeno il cappello. Unica concessione è un Gloria in excelsis Deo cantato dalle alunne della scuola, ma si tratta di un momento puramente musicale assimilabile agli altri presenti nel film (una canzone tradizionale giapponese e una cinese). Insomma quella chiesa è vuota, e lo si percepisce benissimo. Se ciò, a mio avviso, è tutt’altro che casuale, va detto che tra cattolicesimo ed estremo oriente – nonostante il respiro universale della Chiesa – c’è un solco culturale considerevole; fraintendimenti e grossolanità sono quasi la norma nelle traduzioni visive della nostra religione confezionate da quelle parti (basti pensare, ad esempio, agli anime… su cui potrebbe essere divertente fare una panoramica, prima o poi). Potrebbe accadere qualcosa di analogo se gli svedesi trattassero un aspetto altrettanto profondo e sentito della realtà coreana: introiettare correttamente valori intimi e ben strutturati di una cultura che non si condivide è difficile in qualunque direzione. Giusto per fare un esempio: chissà che cosa potrebbe pensare, qualora riuscisse a vederlo, un cinese (per quanto penso che la Disney, desiderosa di far breccia in quel mercato si sia avvalsa – invano – di ogni precauzione), degli antenati fosforescenti del film Mulan?

Resta il fatto che, oltre al gap culturale certamente presente, la sensazione di fondo è che il materiale scelto per il film sia stato maneggiato con estrema cautela.

O forse semplicemente non sono riusciti a trovare un valido consulente cattolico? ;)



LES MISÉRABLES
4 febbraio 2014, 10:07 am
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(Les Misérables)

UK, 2012, di Tom Hooper, con Hugh Jackman, Russell Crowe, Anne Hathaway, Amanda Seyfried, Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter…

les-miserables-poster-italianoCONTIENE SPOILER – Come sia possibile che due autori ebrei (Alain Boublil per la versione francese, Herbert Krezmer per la trasposizione – con ampliamenti – in inglese), mettendo mano al capolavoro di un capostipite dell’anticlericalismo contemporaneo (Hugo), abbiano partorito un’opera dal cattolicesimo palpitante, è questione dai risvolti per lo meno interessanti.

Oggi possiamo godere, grazie all’ottimo lavoro del regista Tom Hooper, di un lungometraggio che renda onore alla versione musical del romanzo; pellicola che a sua volta (ancora inaspettatamente), insiste in una dirittura cattolica dell’opera.

L’epicità delle vicende narrate, e la partecipazione dello spettatore che ne scaturisce immancabile, risalgono al fatto che la storia (nel musical e ovviamente nell'”epos” da cui è pressoché fedelmente traslato) percuote l’idea di Essere Umano nelle viscere attraverso concetti di cui oggi, soprattutto nel cinema, c’è profonda nostalgia: perdono, redenzione, virtù, sacrificio. Quattro pietre d’inciampo che un po’ per motivi squisitamente storici e culturali (il romanzo è diffuso nella Francia del 1862), ma soprattutto per la personale ricerca filosofica di Victor Hugo, si muovono in un’orbita sì oscillatoria, ma chiaramente cattolica. Del resto è una caratteristica interiore di tutto il genere del romanzo storico europeo, quali che ne siano le tesi: l’appoggio a premesse filosofiche desunte dalle strutture teologiche cristiane è di fatto ineludibile: “Le catacombe in cui si è detta la prima messa non erano soltanto le cantine di Roma, ma il sotterraneo del mondo” (1), per dirla con Hugo stesso.

1Credo che liquidare il film di Hooper -imperdibile- con un commento entusiasta e la facile etichetta di “film cattolico”, sia un’occasione sprecata per penetrarne veramente la radice originaria, certificandone la religiosità che ne costituisce l’impalcatura interna e che è altresì affair delicatissimo, da rapportarsi obbligatoriamente alle spigolosità di un romanzo immortale di parentela giacobina, il quale fu, com’è noto, messo persino all’indice. Aspetto quest’ultimo che non fa che rendere ancor più stuzzicante e necessaria la comprensione delle opposte tensioni tra film e romanzo, anticlericalismo e cattolicesimo.

2Per poter proseguire è necessario un accenno all’inizio della trama. Protagonista della lunga vicenda è il forzato liberato Jean Valjean; questi, incarcerato oltre vent’anni addietro per il furto di un tozzo di pane, esce dal bagno penale intimamente abbruttito e carico di odio distruttivo. Respinto come lebbroso dall’intera società, come richiesto dal suo curriculum, troverà unico rifugio da una notte invernale nell’accoglienza del vescovo di Digne, Monseigneur Bienvenu. Jean, predatore capace di sola vendetta, si alza nel cuore della notte, ruba l’argenteria da tavola e fugge via. Il mattino dopo è riconsegnato da due gendarmi al prelato, il quale, contro ogni previsione, nega di essere stato derubato, ma anzi, di aver donato di sua libera iniziativa quel piccolo tesoro al suo “amico”. L’atto d’amore deliberato di Monseigneur Bienvenu demolisce l’intera personalità di Valjean, lo sconvolge profondamente invertendo tutte le sue logiche: da questo momento sarà una persona nuova, una persona per cui il bene diventa l’obbligo, il compromesso impossibile. Les Misérables apre poi molte parentesi narrative sull’amore, la povertà, la ribellione politica e via dicendo, diviene un romanzo pressoché corale, ma la sua radice, il filo conduttore ultimo, è la peregrinazione esistenziale di Valjean, la sua estenuante e difficilissima lotta – esteriore e soprattutto interiore – per conservare quel tocco divino accorso a salvarlo.

Monseigneur Bienvenu è il motore della storia, il big bang narrativo di trama, sottotrama, poetica e morale . È questo il motivo per cui Hugo spende una notevole quantità di pagine per caratterizzarlo con la massima precisione (ci viene riportato anche il rendiconto di come egli usufruisce del suo vitalizio!): è sostanzialmente un bravo prete e una persona degna di credibilità se non di stima, una specie rara, sembra dirci Hugo, di cristiano non ipocrita.

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Ma perché Hugo, vate del radicalismo repubblicano, piazza in questa posizione un vescovo? Un signorotto con le mani in pasta negli strascichi dell’ancient régime? Come noi se lo chiedeva il figlio dello scrittore che, come testimoniato dalla sorella Adele nei suoi diari, sconcertato dalla scelta del padre lo coinvolgeva in accese discussioni: perché un prete? Perché non un medico? Uno scienziato? Una qualunque mente illuminata? La risposta di Hugo ci fa riflettere:

“Non posso mettere il futuro nel passato. Il mio romanzo si svolge nel 1815. Del resto, questo sacerdote cattolico, questa pura e alta figura di vero sacerdote è la satira più sanguinosa del sacerdote attuale. Non mi interessano le opinioni dei repubbicani ciechi e ostinati. L’uomo ha bisogno della religione. L’uomo ha bisogno di Dio. Lo dico ad alta voce, ogni notte io prego” (2).

Quale sia la religione di cui ha bisogno l’uomo, e quale sia il senso della preghiera, Hugo non lo specifica, ma intende certamente quell’idea generica e filomassonica che gli consentì, senza battere ciglio, le parentesi di acceso anticlericalismo che si ravvisano, tra i molti esempi, anche nei capitoli centrali de I Miserabili. La parabola religiosa di Hugo, granitcamente cattolico in gioventù e rientrato all’ovile prima della morte (stando alla testimonianza di S. Giovanni Bosco, che ne fu l’artefice), qui interessa solo in funzione del contenuto del suo romanzo: nelle molte pagine di cui si compone la sua opera emerge infatti un cattolicesimo latente, quasi schizofrenico. Dietro all’esigenza di realismo (“non posso mettere il futuro nel passato”) si nascondono quei germi dottrinali ricevuti negli anni infantili, ed essi contaminano, volente o nolente, la filosofia che vorrebbe emanciparsene. Monseigneur Bienvenu è frutto lampante di questa commistione, di questa ricostruzione storica inflazionata da un ricordo spirituale. Insomma, se la religiosità più “adulta” del poeta ha potuto disfarsi di chiese e superstizioni, ne I Miserabili a ottenere l’impossibile (il rivolgimento completo di un’anima), è proprio un faccendiere di questi elementi.

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Bienvenu, in quella che secondo Hugo dovrebbe essere l’esemplarità, cede ad atteggiamenti talvolta… diciamo lievemente sospetti; ingredienti che narrativamente ne arricchiscono il ritratto rendendolo sfaccettato ed umano. C’è in lui un lieve assaggio di quel pressapochismo deista che ai palati cattolici coevi doveva risultare pericoloso: non che non lo fosse, ci mancherebbe, ma nel vescovo di Digne è dosato con estrema attenzione, pena mancare la credibilità del personaggio; e se alcune sue uscite fanno un po’ di equilibrismo tra religione e scienza sociale, altre hanno il preciso scopo di qualificarlo come un consapevole uomo di Chiesa (una frase fra tutte: “Non sono al mondo per salvare la mia vita, bensì per salvare delle anime”). Si tratta perlopiù di piccoli episodi che incorniciano la limpidezza evangelica del vescovo, senza intaccarne veramente il ministero; rivelano piuttosto le piccole voluttà ideologiche cui non seppe sottrarsi il grande scrittore (3) (talvolta con esiti rasentanti il naif: Bienvenu sarebbe stato casualmente notato – prima di divenire vescovo – da Napoleone in persona, e raccomandato dunque allo zio, il cardinale Fesch).

Apriamo poi una parentesi che riguarda un altro personaggio rilevante: Marius, un giovane idealista, dottore in legge dotato di tutte le qualità della nuova epoca (e che combatterà anche nelle barricate). Per motivi che sarebbe troppo difficile spiegare verso la fine del romanzo egli si trova a dover decidere, conosciutane l’identità di ex forzato, della sorte di Valjean. Il giovane allontana Jean, lo invita all’esilio: è del tutto incapace di replicare una minima parte di quanto fece all’inizio della vicenda un membro del clero.

Chiarita l’impronta di Monseigneur Bienvenu passiamo adesso a una valutazione di più ampio respiro sulla “sensazione” religiosa che Hugo imprime al suo romanzo. Che lo scrittore fosse stato in passato un fervido cattolico risulta chiarissimo in qualche passo per le suggestioni, le atmosfere che lo scrittore riesce a creare: una volta rimessosi sulla strada, successivamente al perdono del vescovo, Valjean è in preda ai più cocenti dissidi interiori. É intimamente ferito più che guarito, e agisce per l’ultima volta nel male, scientemente, derubando un ragazzino di una moneta. È un piccolo episodio (solitamente, come comprensibile, omesso dalle trasposizioni cinematografiche), che ha il difficile compito di completare la rivoluzione interiore del “miserabile”. Hugo riesce a rendere perfettamente la perdita della Grazia, anzi, la perdita della Grazia dopo che la si è appena ottenuta (deve insomma averne saputo qualcosa di confessionali e assoluzioni). È questo contrasto, questa riaffermazione del male dopo aver conosciuto il bene che spinge definitivamente Jean ad agire di lì in avanti, sotto lo sguardo del Signore, divenendo di fatto agente della Sua provvidenza.

Un altro aspetto fondamentale della dirittura religiosa dell’opera è infatti proprio la Provvidenza, la quale con discrezione, ma talvolta clamorosamente, rivela che lo sguardo di Dio è partecipe alle sofferenze di Valjean, lo accompagna e ne accoglie i sacrifici con “meccanismi” che sono l’antitesi del distacco che ci si aspetterebbe da un Grande Architetto qualunque. Il Dio dei I Miserabili tesse il suo complesso arazzo comprimendo il male negli orditi del bene.

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Osserviamo ora l’anticlericalismo più scoperto, per il quale Hugo si ritaglia l’occasione parlando della storia del convento parigino del Petit Picpus, nel quale si svolgono numerose scene. Sono le pagine più eterodosse di tutto il romanzo, nel quale lo scrittore si accanisce, come vuole la miglior tradizione anticlericale francese, sulla vita monastica. Nulla che Diderot e compagnia bella non avessero già detto a loro tempo, ma in Hugo, nell’esposizione logorroica, l’argomento si colora di contraddizioni e di quello che prima definivo “cattolicesimo schizofrenico”. La prosopopea anticattolica dedicata ai monasteri è copiosissima, attingiamo a caso qualche esempio: “Il convento […] è una delle più cupe concezioni del Medioevo. Il chiostro è il punto d’intersezione dei terrori. Il chiostro cattolico propriamente detto è tutto pieno della tetra irradiazione della morte”; “Chi dice convento dice palude. La loro putredine è evidente, il loro stagnamento malsano, la loro fermentazione dà la febbre ai popoli e li intristisce; il loro aumento diventa piaga d’Egitto”; “Quanto a noi rispettiamo qualcosa e risparmiamo tutto il passato, purché accetti di essere morto. Se vuol essere vivo, l’attacchiamo e cerchiamo di ucciderlo. Superstizioni, bigottismo, bacchettonismi, pregiudizi, queste larve, quantunque non siano che larve, si aggrappano alla vita; hanno denti e unghie nel loro fumo, bisogna spegnerle corpo a corpo, far loro guerra e fargliela senza tregua, perché è una fatalità dell’uomo essere condannato all’eterno combattimento coi fantasmi”.

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Parole tagliate con la scure (o la ghigliottina), cui seguono o s’inframmezzano o fanno eco più tardi nel testo punzecchiature all’ateismo (“C’è una filosofia che nega l’infinito. C’è anche una filosofia, classificata patologicamente, che nega il sole; questa filosofia si chiama cecità”); ridimensionamenti arruffati (“Noi biasimiamo la chiesa quand’è satura d’intrigo, disprezziamo lo spirituale quando viene dopo il temporale; ma onoriamo ovunque il pensatore. Salutiamo chi s’inginocchia. Una fede: ecco ciò che necessita all’uomo. Sventura a chi non crede in nulla!”); vere e proprie rigirate di frittata (“Non c’è forse opera più sublime di quella che fanno quelle anime. E aggiungiamo: forse non c’è lavoro più utile”; “Ci vogliono quelli che pregano sempre per coloro che non pregano mai. Per noi tutta la questione sta nella quantità di pensiero che si unisce alla preghiera”); dichiarazioni di incertezza (“Quando si parla di conventi, di questi luoghi di errore ma d’innocenza, di smarrimento, ma di buona volontà, di ignoranza ma di devozione, di supplizio ma di martirio, bisogna sempre dire sì e no”); tentativi grossolani – a tratti risibili – di sintesi estrema (“dal punto di vista strettamente filosofico […], a condizione che il monastero sia assolutamente volontario e non racchiuda che dei volontari, considererò sempre la comunità claustrale con una certa gravità attenta e, sotto qualche punto di vista, deferente. Dove esiste la comunità là c’è il comune, c’è il diritto. Il monastero prodotto della formula: Eguaglianza, Fratellanza. Ah, com’è grande la libertà!… e che trasfigurazione splendida! Basta la libertà per trasformare il monastero in repubblica”); straordinarie concessioni di ammirazione (“Quanto a noi che non crediamo in ciò che quelle donne [le monache] credono, ma che come loro viviamo nella fede, noi non abbiamo mai potuto considerare senza una specie di terrore sacro e tenero, senza una specie di pietà e d’invidia, queste creature devote, tremanti e fiduciose […]”; “[Valjean] aveva sotto gli occhi il culmine sublime dell’abnegazione [le monache], la più alta cima della virtù possibile; l’innocenza che perdona agli uomini le colpe commesse e che espia per loro; la servitù subita, la tortura accettata, il supplizio richiesto dalle anime che non hanno peccato per le anime che hanno errato; dolci essere deboli aventi la miseria di coloro che sono ricompensati”).

Ciò che nel flusso chilometrico dei testi di Hugo diviene una girandola di pensieri che ritornano su sé stessi in ripensamenti e aggiustamenti, nella crudezza delle estrapolazioni appena effettuate provoca un senso di grave indeterminatezza di fondo. Da quest’analisi – e limitatamente a Les Misérables – non si può che rilevare un anticlericalismo sofferto, nervosamente impreciso.

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La vita di Valjean è una costante lotta per il bene, nelle difficoltà più disperate, nelle tentazioni indefesse verso il compromesso, l’odio, la salvaguardia del proprio egoismo, nelle incomprensioni e nella solitudine assoluta: con la pazienza di chi ha definitivamente capito, tutto viene – con grande fatica e sforzo – sopportato e posto sotto lo sguardo di un Dio benevolo e accogliente. Non ci vuole granché a capire, per quanto non venga palesato a parole, che Valjean tende tutto sé stesso alla santità (nel senso letterale, cristiano, del termine). Non è poco, considerando la reputazione della penna da cui è uscito.

Sul letto di morte Valjean non fa chiamare sacerdoti, rifiutando dunque i sacramenti; Hugo in questo modo riequilibra ciò che avrebbe rischiato di risultare definitivamente incoerente con la sua battaglia. Tuttavia anche un fatto così forte viene mantenuto nell’ambiguità, e circondato di attenuanti: Valjean è convinto di non meritare nulla, di essere ancora un reietto che tutto deve subire e nulla attendere. E chiama a sé, tuttavia, comunque un prete: “-Volete un prete? / -Ne ho già uno – rispose Valjean. E parve accennasse col dito a un punto sopra il suo capo, quasi ci scorgesse qualcuno. È probabile infatti che il vescovo assistesse a quell’agonia”.

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Les Misérables dunque, malgrado tutto, a mio avviso è un romanzo quasi cattolico; espressione d’un cattolicesimo infettato, aggredito e al contempo ribadito in un processo narrativo che ai giorni nostri può serenamente (ovviamente intendo da un punto di vista religioso) essere apprezzato.

Nel momento in cui ci si è proposto, arditamente, di applicare al romanzo le strutture proprie del musical, la componente cattolica che abbiamo sin qui osservata è stata pienamente accolta e potenziata per far fronte a inevitabili esigenze di sintesi, chiarezza, introspezione tramite il soliloquio/assolo (ecco il perché delle numerose preghiere cantate). Il percorso di Valjean è un percorso cristiano-cattolico: per renderlo realmente credibile in tutta la sua forza in uno show che per raggiungere l’eccellenza deve frustrare la complessità del testo originario (comprimendolo entro una struttura musicale obbligata, una “scaletta” che intrattenga), è stato necessario renderlo riconoscibile, motivarlo in ogni punto del narrato.

Gli autori, a dispetto – come dicevo nell’incipit – delle loro origini, hanno sublimato i germi cattolici utilizzati da Hugo in una trasfigurazione di impressionante intensità.

Il musical, apprezzabilissimo dunque anche per i contenuti, risulta tuttavia superficiale se raffrontato alla complessa poetica di Hugo: nell’economia dello show si sono dovuti sacrificare o snaturare numerosi momenti interessanti. È il motivo per cui talvolta si parla, per la trasposizione da palcoscenico, di “opera a sé”. Non sono della stessa idea: alcune ricomposizioni e addensamenti hanno scontentato anche me, ma lo spirito ultimo – e semmai è qui che si dovrebbe discutere – mi pare sia rimasto intatto: non mi sento di pretendere, dalle penne che hanno costruito lo spettacolo, un “miracolo” ulteriore rispetto a un testo melodico di assoluta bellezza, grandioso almeno quanto il testo di Hugo esigesse. La religiosità dei personaggi, Valjean in primis, è un ingrediente sapientemente sfruttato per fa parlare i personaggi dei loro dissidi, ma anche per innalzare tutto quanto su un livello più ampio e universale (proprio come voleva il poeta). La polemica religiosa è espunta sin dalla radice per non ostacolare questi elementi, e per porre in evidenza la base del percorso esistenziale di Jean, colonna portante dell’opera e aspetto di più delicata trattazione. Probabilmente non si è neppure sentito il bisogno di porre inutili interferenze alle emozioni dello spettatore, saldamente catturare dall’antico matrimonio tra musica e spiritualità.

9Venendo finalmente a parlare del film, che è il motivo per cui dovremmo essere qui, riconosceremo immediatamente come Hooper, che insiste nella conformazione cattolica dell’opera in due modi, visivo e fenomenico, abbia capito che l’ingrediente vincente del musical è l’aver saputo trasmettere a un pubblico immenso, in modo persuasivo, i passi più struggenti e forti del romanzo francese. Ha così ribattuto fiducioso la china indicata da Boublil: con un approccio sul lungo percorso che definiamo “visivo”, Hooper ha arricchito le performance musicali – anche per una questione estetica – con una cascata di dettagli religiosi (ovvero ambienti chiesastici, crocifissi, immagini sacre, rosari, vetrate, candele e via dicendo). L’altro tipo di approccio, assai più clamoroso, è quello che ho definito “fenomenico”: ovvero una precisa scelta registica, posta nell’acme del narrato, che si dissocia dal musical riagganciandosi al “problema” che avevo tratteggiato a proposito del letto di morte di Valjean. Hooper risolve quell’ambiguità scegliendo di far comparire, per accompagnare il trapassato in Paradiso, Fantine (come nel musical) ma anche, sostituendo Eponine, proprio il vescovo Bienvenu, il quale si inserisce nel canto come terza voce proprio allo scadere della frase: “E rammenta, la verità che una volta fu detta, amare un’altra persona è vedere il volto di Dio”. La scelta di Hooper è felicissima, sia per il significato religioso che conferisce all’intera opera in senso ampio, sia per la precisione filologica dimostrata nel comprendere e riproporre il messaggio ultimo del romanzo, dove “l’amore” di cui si parla è infatti quello tra ogni essere umano. (Insomma… in poche parole la fraternité torna a farsi cristiana).

Il film di Hooper è meritevole per moltissimi altri aspetti, come esposto accanto alle criticità, in molte recensioni professionali cui – essendomi dilungato troppo – vi rimando. Io l’ho trovata un’opera grandiosa, ove il materiale di alta qualità offerto in partenza è stato ben coronato, dandogli l’azione e un respiro lirico – monumentale, che il palcoscenico era costretto a contenere.

In conclusione si tratta di un grande film per una grande storia, una trasposizione di cui si sentiva veramente il bisogno nonostante si fosse giunti ben oltre qualche decina di versioni cinematografiche. Un’impresa che attraverso il percorso fino a qui seguito ci ha consegnato un film magnifico, epico e, quel che a noi interessa… cattolico. Tutti aspetti che secondo me, nel centocinquantesimo anniversario della sua fatica, lo dico per fare a Hooper il complimento massimo, il grande Victor Hugo avrà certamente apprezzato.

(1) Tutte le citazioni dirette dal romanzo saranno – purtroppo – prive di riferimenti precisi: è decisamente uno degli inconvenienti di leggere su Kindle.

(2) M. Vargas Llosa, La tentazione dell’impossibile, Victor Hugo e «I Miserabili», Milano, 2011, pp. 81-82.

(3) Potrebbe non essere necessario, ma per sicurezza specifichiamo  che nonostante la prospettiva di chi giudica i fatti, non si ritiene affatto che l’anticlericalismo di Hugo sia in toto sordo e spregiudicato. Alcuni suoi spunti – va da sé, i più assennati – sono anzi ancora attuali.