LA LUCE IN SALA


DEVIL
28 novembre 2011, 1:43 PM
Filed under: Aperti a Dio, Film

(Devil)

USA 2010, di John Erick Dowdle, con Chris Messina, Logan Marshall-Green, Jenny O’Hara, Bojana Novakovic…

Un titolo “aperto a Dio” che è anche un film horror. Ho già toccato l’argomento in altre situazioni, ma essendo questo un luogo virtuale dove ci si concentra su agiografie e variegati temi religiosi, la specificazione non sarà mai del tutto inutile: l’idea che un horror non abbia nulla da trasmettere sul piano spirituale è un’idea comune, spesso fondata, e tuttavia in alcuni casi sbagliatissima. Proprio perché questo genere non teme di sondare il panorama soprannaturale incappa inaspettatamente, molto più di quanto accade ad altri generi, nell’occasione di dire qualcosa di davvero importante. Nel caso di Devil è stato sufficiente accorgermi del fatto che la scrittura fosse di M. Night Shyamalan per prestare attenzione a un titolo che altrimenti sarebbe scivolato via nel mare dei film horror che non si ha il tempo (o lo stimolo) di vedere. Un titolo lapidario, esausto, banale… che chiama in causa una figura abusata nel settore della paura: La casa del diavolo, Il nascondiglio del diavolo, La sedia del diavolo, Il respiro del diavolo, La spina del diavolo… un elenco solo dei titoli più recenti -senza nemmeno credits- che potrebbe continuare ancora. Quando c’è di mezzo lui, il principe di questo mondo, la spia “cattolicesimo” si accende volentieri per dare senso a un personaggio altrimenti tendente all’astrazione, o magari per offrire persino una soluzione. La sorpresa di Devil non è stata constatare tutto questo ancora una volta, ma scorgere aldilà dell’evidente “apertura a Dio” (per dirla con la categoria che dà ragion d’essere a questa recensione, un concetto espresso a chiare lettere nel film non senza semplicismi) qualcosa di molto più raffinato sul piano dell’interpretazione cristiana del male e del rapporto dell’uomo con esso. Non fraintendetemi, il film mira naturalmente a sconvolgere e spaventare (di non poco conto fra l’altro il fatto che ci riesca), e per farlo spettacolarizza e forza alcuni principi teologici, ma senza appiattirli. In una mattinata senza sole, in uno dei tanti grattacieli di Filadelfia, uno dei tanti ascensori si blocca con a bordo cinque persone. Subito la situazione si qualifica come poco distesa, dato che ognuno culla le proprie fobie, sfoga il proprio fastidio, si mette sulla difensiva tra sarcasmi e punzecchiature varie. Le cose ovviamente non migliorano quando il guasto si rivela di difficile soluzione ed iniziano a trascorrere inesorabilmente le decine di minuti. Nella stanza dei bottoni due addetti osservano dal monitor la situazione all’interno del cubicolo e Ramirez, ispanico di cattolicissimo retaggio, intuisce presto, interpretando alcuni strani aloni che appaiono sul monitor, che la situazione è ben più grave del pensabile: non esistono tecnici in grado di riparare quel guasto. Ad essere guasto infatti non è l’ascensore, ma l’essere umano, che nelle cinque varianti dei personaggi intrappolati mostra tutto un ventaglio di difetti, pecche e soprattutto colpe. Di lì a poco la preoccupazione e il fastidio diventeranno puro terrore, mentre le forze dell’ordine, impotenti, osserveranno compiersi le fasi di un terribile enigma. La trama è originale, interessante e soprattutto da brividi. Ma c’è di più, molto di più: in pieno accordo con la migliore poetica di Shyamalan, un cristianesimo latente affiora dalla storia per diventarne, in punta di piedi, il protagonista. Il male si manifesta atroce e implacabile, mentre gli avvertimenti di Ramirez appaiono ridicoli (sottolineo “appaiono” e specifico: meravigliosamente ridicoli) anche allo spettatore stesso, al corrente della reale natura della situazione. Per chi non ha difficoltà col genere Devil è un film raccomandato, ben confezionato, ben recitato… portatore di un pacchetto di significati sorprendentemente importanti. Ottimo l’iniziale scorrere dei titoli di testa: geniale.



MAGNOLIA
14 marzo 2011, 7:45 PM
Filed under: Aperti a Dio, Film

(Magnolia)

USA 1999, di Paul Thomas Anderson, con Tom Cruise, Philip Seymour Hoffmann, Julianne Moore, Jason Robards, Philip Baker Hall, John C. Reilly…

Se La Luce in sala fosse un blog che assegna le “stellette” (cosa che non è), Magnolia eccezionalmente ne avrebbe dieci tonde tonde. È stato scritto un po’ di tutto sia nel bene che nel male… ma non ho ancora trovato una lettura che ne consideri il significato più scomodo. Quando la critica di un titolo è mescolata all’interpretazione è quasi sempre condizionata dall’interiorità di chi la elabora, per cui vorrei raccomandare a quanti stanno leggendo di astenersi dal proseguire senza aver visto prima il film: questa non è una recensione, ma una traduzione che rovinerebbe la vostra percezione. Se stavate leggendo per farvi invogliare nella visione… beh, vi raccomando esplicitamente di guardarlo… (insomma, dieci stellette!!!)

Perché Magnolia è un film aperto a Dio? Credo che quanti avessero preso l’epigono della trama come un dardo del nonsenso potrebbero storcere il naso o ritenere una lettura nello stile di chi scrive arbitraria e forzata. In realtà osservo periodicamente Magnolia sin dal 1999, l’anno di uscita, e non sempre sono stato di questa opinione. Maturando e pensando e ripensando mi sono arreso a quella che mi è sembrata l’evidenza. I travagli esistenziali dei nove protagonisti dibattentisi nel mare oscuro della vita per ben tre lunghe ore, (“La vita non è corta, è lunga!” dirà il morente Earl), convergono tutti sul ciglio del nulla, con passi alternati di disperazione e frustrazione. Fra loro c’è chi cerca il perdono sapendo di non meritarlo, c’è chi è radicalmente innocente ma deve passare nel tritacarne del mondo adulto (non è pericoloso confondere i bambini con gli angeli), c’è chi odiando con livore indossa una maschera grottesca, chi è un “fallito”e chi un inetto. Tutti non basterebbero a sé stessi, tutti non ce la farebbero ad andare avanti.

Le rane potrebbero non voler dire niente di particolarmente trascendentale, ma è con la loro illogica e immotivata provenienza, che dicono tutto. Hanno il sapore inconoscibile di un intervento dall’alto, di una piaga egizia di biblica memoria. Una piaga decisamente fuori tempo massimo che viene a salvare e a interrogare su un livello altro rispetto a quello dell’analisi razionale. Il film in questo senso non è aperto a Dio, ma spalancato. Le rane non hanno alcun senso, ma ci sono. Le rane sotto forma di cataclisma inelegante e impoetico come pochi (lontano insomma dall’incedere angelico di una figura luminosa) schiacciano sotto al loro peso scrosciante qualsiasi pensiero, qualsiasi problema. Confermano il sospetto di un non senso terreno (ricordate i tre episodi iniziali sulla teoria del caso/non caso?) alludendo a un significato più ampio che distrae, fa rinsavire, scrolla via ogni ossessione. Ovviamente tutto questo consentirebbe mille altre letture parallele: le rane sono solo un simbolo, una metafora (di mille cose diverse, ad esempio quello che non conosciamo o comprendiamo, l’oscurità del futuro, la fatalità del mondo…); le rane sono l’estrinsecazione materiale e concettuale dell’assurdo della vita; le rane sono un parallelismo fra la natura biologica sconquassata e la natura umana deturpata. Insomma, le rane potrebbero voler dire potenzialmente quello che ognuno di noi crede… se non fosse che dopo l’inconcepibile accade ancora l’impensabile: in risposta alla specifica preghiera del poliziotto Jim, (l’unico che possa, nella sua ottusa ingenuità, pregare Dio fattivamente), dopo il diluvio di anfibi piove anche una (in realtà “la”) pistola. È questo l’elemento che affossa tutte le altre ipotesi. Vi è in questo, a mio parere, una precisa (ironica?) ricostruzione della logica del rapporto uomo-Dio: le rane sono “piaga” formale, sono cataclisma formale, ma salvano. La pistola cade come il più schiacciante dei miracoli quando ormai è tardi, quando non serve più, in un impeto di provvidenza.

Senza la pistola la pioggia di rane sarebbe solo un raro (qui decisamente troppo spettacoloso) fenomeno meteorologico: “Sempre si troveranno abbastanza luci per chi voglia credere e abbastanza ombre per chi voglia dubitare” dice Pascal. Ho letto molte recensioni amare, “disorientate” da questa sorta di compiacimento criptico che vorrebbe strizzare l’occhio allo spettatore medio facendolo sentire intelligente senza che egli abbia capito nulla. Mi dissocio: Anderson schiaffeggia lo spettatore a livello visivo, ma concettualmente e senza imporre nulla, consente una comprensione reale e sentita che è, per sua stessa natura, avversa al ritmo e ai temi dei momenti antecedenti, ma li accoglie  e li porta comunque tutti a compimento. Chiaramente la prima visione del film risulterà profondamente straniante, ma non ritengo che la scelta del regista sia spocchiosamente autoriale o generica o facile (come è stato detto). Allusiva è la profezia del bambino rapper (“non è pericoloso confondere i bambini con gli angeli”, dirà Donnie) che cita una formula che non può essere casuale (verrà ripetuta in due diversi momenti del film): Segui me dalla A alla Z sono io il tuo profeta, uomo inerme, io ti parlo di un gran Verme, che un giorno il collo tirò per bene al responsabile delle sue pene, scappa dal diavolaccio ma al collo ha già un bel laccio. E se merita una punizione dagliela tu, sapientone. Quando il sole bene non fa, Dio manda pioggia sull’umanità, a “lume di naso” questo ti aiuta a risolvere il caso. (In inglese: When the sunshine don’t work, the good Lord bring the rain in.) Il “Verme” nominato è naturalmente l’assassino implicato nel “caso” di cui si sta parlando.

La pioggia è la stessa cui si riferiscono i valori metereologici che intervallano in due momenti l’andamento della trama e, ovviamente, soprattutto quella finale, non preannunciata da nessun metereologo ma bensì dalla numerologia tratteggiata nel film: dopo qualche visione diventerà evidente come il numero 82 sia ridondante.

Ad attrarre l’attenzione su questo aspetto è soprattutto il momento del tentato suicidio iniziale del giovane Sid: a terra, poggiati alla balaustra, vi sono due fili metallici modellati proprio a “82”, innaturalmente disposti essi rivelano una simbologia che pervade tutto il film: Esodo (il libro citato da Donnie, il genio con l’apparecchio) 8, 2: Aronne stese la mano sulle acque d’Egitto e le rane uscirono e coprirono la terra d’Egitto.

A questo punto, volendo premere ancora un’ultima volta su questa interpretazione, aggiungerei che assume un plusvalore la dialettica realtà/finzione, ripetutamente attaccata nello svolgersi del film: – L’amorevole infermiere Phil (Hoffmann) è al telefono con l’operatore di Seduci e Distruggi: […] Faccio la figura dello stupido Come se stessi girando la scena di un film dove il vecchio morente cerca il figlio, ma mi creda, siamo in quella scena, ora siamo in quella scena e io credo che mettano queste scene nei film perché corrispondono alla verità, perché succedono veramente e lei mi deve credere perché sta accadendo qui, in questa casa. […] Davvero questa è la scena del film in cui lei mie viene ad aiutare!” – Quando, nel momento di catarsi finale la fragile Claire riabbraccia finalmente sua madre in preda allo stato confusionale indotto dalla pioggia di rane, la telecamera inquadra un dipinto la cui didascalia dice “Eppure è successo”. – Contemporaneamente il piccolo Stanley, da solo nella biblioteca, si (e ci) ripete: “Succede, sono cose che accadono. Sono cose che accadono.” – Infine la voce narrante che conclude la visione, ponendo alcune considerazioni sul caso, dice: “E noi di solito commentiamo, beh… se l’avessi visto in un film, non ci avrei creduto!

Ancora devo specificare che Magnolia è un ricchissimo affresco sull’uomo che apre infinite parentesi psicologiche, simboliche, di significato. È un capolavoro di tecnica, un vero pezzo di bravura, una raccolta di attori superbi, un puzzle di brani musicali azzeccatissimi. Per questi e molti altri aspetti vi rimando alle critiche ospitate altrove… qui abbiamo impostato un discorso necessariamente mirato, forse centrale ma senz’altro limitato rispetto a quanto viene trattato in un lungo film che vuole dire e mostrare tutto (il cinema, la vita, l’amore, la morte, il passato, il perdono, il peccato…) e forse è proprio per questo che non poteva esserci altra soluzione narrativa se non quella insinuante e ammutolente delle rane.

Alla ricerca di ulteriori conferme mi sono imbattutto nella seguente dichiarazioni del regista: “Le rane non hanno alcun significato. Solo il fatto che cadano ha significato. Se avessi avuto il budget,  sarebbero potute essere cani e gatti.” (fonte)



HEREAFTER
7 gennaio 2011, 2:34 PM
Filed under: Aperti a Dio

(Hereafter)

Usa, 2010, di Clint Eastwood, con Matt Damon, Cécile De France, Marthe Keller, Thierry Neuvic…

Aspettavo esattamente questo titolo per inaugurare una nuova categoria del database: “Aperti a Dio”. Clint Eastwood è un personaggio affascinante, un autore cinematografico già parte della storia, dato l’apporto dei suoi film. Ha ricevuto un’educazione protestante ma ha poi svolto un percorso di vita che lo ha allontanato dalla religione, tanto da far pensare alcuni attenti indicizzatori di nomi atei, che egli fosse un membro illustrissimo da poter finalmente includere nella propria lista dorata. Non è affatto così, e se non bastassero le ultime esplicite dichiarazioni in merito, o film schiaccianti (e tuttavia parimenti ambigui) come Gran Torino, 2008, adesso è arrivata nelle sale l’ultima fatica del regista, che assesta un durissimo colpo alle varie interpretazioni fuorvianti del suo pensiero, imbastendo un discorso ancora più scalzante attraverso una sintassi puramente laica. Mi sembrava insomma che per inaugurare questa sezione, attendere Hereafter fosse fortemente emblematico.
Il film inizia con la poderosa ricostruzione, tutta effetti speciali, della catastrofe dello Tsunami: occasione per richiamare subito, sin dall’inizio, un’immagine di morte potentissima. Non sono necessarie troppe riprese, la disgrazia emerge subito dai nostri stessi ricordi, imbevuti di cronaca e fotografie che avevamo già riposto in un angolo. Strappata alla morte da tempestiva rianimazione, Marie LeLay, grosso nome del telegiornalismo francese, fa fugace esperienza di un mondo altro. Marcus, un timido ragazzino londinese, non trova modo di elaborare il lutto per la tragica morte del gemello Jason, suo riferimento principale in tutto e, infine, George Lonegan, sensitivo in incognito fugge quella che ritiene la sua “condanna”, nel vano tentativo di vivere un’esistenza senza il dolore e l’isolamento che il contatto coi defunti procura inevitabilmente. Le tre vicende, raccontate alla Eastwood col ritmo ineccepibile di un’unica lunghissima frase che non si spezza mai, si intersecheranno solo nell’acme del finale. Emerge nitida Sorella Morte, ma dato che il film enuncia subito che essa conduce semplicemente altrove, non spaventa davvero nessuno. L’idea in assoluto più ecumenica, antropologicamente universale, democratica, è proprio quella della morte. È troppo basale e troppo poco astratta per trovare una codifica religiosa spontanea. Lo vediamo nel piccolo Marcus, che non può comprendere quello che le religioni hanno da offrirgli per spiegare la morte o la sua improvvisa annichilente solitudine… è tutto troppo indiretto rispetto allo smacco impietoso di un’improvvisa assenza, troppo macchinoso, in confronto alla verità senza obiezioni del vuoto.

Marcus osserva il letto vuoto del fratello

Ed Eastwood infatti, in linea col suo pensiero, mantiene il discorso proprio su questa dirittura, senza dare risposte (non saranno in grado di fornirne nemmeno Marie, che è morta per alcuni istanti, nè George, che parla coi morti sin da quando era piccolo), senza sottintendere nulla di ancestrale (persino il potere di George è il frutto di un’operazione chirurgica) ma solo constatando alcuni fatti, compiendo alcune considerazioni logiche. Ci terrei a riportare come si mostri chiaramente che il tema dell’immortalità dell’anima viene recepito, molto spesso, come uno scandalo insopportabile dalle élite culturali: se ne è accorta sin troppo bene Marie, penalizzata nella carriera, nella credibilità, nella considerazione di colleghi e amici solo per aver detto di essersi dovuta arrendere a un’idea che lei stessa prima rifuggiva. Eastwood non cede, non crede di poter sollevare il velo di Maya così facilmente, come mostra nella processione di falsi medium dai modi grotteschi, e come esprime chiaramente a parole “Da ragazzo la mia famiglia si è spostata spesso e io ho dovuto frequentare sia diverse scuole che diverse chiese. Il Paradiso è un’ipotesi, ma io ho bisogno di fatti, non supposizioni. Mai stato troppo a mio agio nelle religioni organizzate. E poi io con i miei film faccio domande, non do rsiposte.” (Clint in Paradiso, in “Ciak”, 1, 2011, p.64). Il film lascia una luminosa e forte sensazione di ottimismo malcelato. Forse Clint ha solo voluto seguire pedissequamente il copione (che come di consueto ha comunque scelto e vagliato personalmente), ma tutto fa pensare (gli studi scientifici della dottoressa cui si rivolge Marie, l’integrità molto poetica di George, l’episodio del cappellino che distrugge il concetto di caso) che se l’ottantenne Clint (che guarda la morte negli occhi), non da risposte, almeno fa e questo è certo, le domande giuste.