LA LUCE IN SALA


TO THE WONDER
7 luglio 2013, 10:31 am
Filed under: Cattolici, Film

(To the Wonder)

USA, 2012, di Terrence Malick, con Rachel McAdams, Ben Affleck, Olga Kurylenko, Javier Bardem …

To The Wonder (2)Iniziare la recensione di un’opera di Malick è, per me, un’impresa faticosa. I suoi film sono complessi, sfaccettati all’inverosimile e, soprattutto, spalancati alla percezione più intima dello spettatore… e dunque, abbastanza ostici da restituire degnamente a parole (e ancor peggio in un giudizio). È utile, anche per aiutarsi a svolgere un discorso organico, istituire un confronto con la penultima pellicola del regista, il suo capolavoro The Tree of Life. In quel film il lutto diveniva il pretesto per tracciare la mappa esistenziale di una famiglia texana degli anni ’50, svolgendo la psicologia del protagonista attraverso la ricostruzione della sua infanzia e del suo rapporto col padre e la madre. Su questo si costruiva una trasposizione cosmica della peripezia terrena, indagando con asprezza e dolcezza assieme la realtà della signoria divina tanto sul creato, quanto sulla vita di ciascun essere umano. In un crescendo enigmatico – ma di impostazione cristiana – si arrivava a chiudere il cerchio sull’immenso discorso attraverso la rappresentazione di una sorta di “fine ultima”.

wonder 2To the wonder, mantenendo il costante dialogo con Dio e sbilanciandosi di più nella descrizione religiosa esteriore dei contesti psicologici, traccia un discorso più contenuto, non escatologico, e tuttavia egualmente universale. La stessa ricerca è calata in una circostanza ancora più vicina a noi, alle inquietudini dei nostri giorni. Là dove c’era una situazione famigliare, un ordine – anche nella conflittualità – sicuro con cui confrontarsi, qui il singolo lotta per affermare un primo appoggio fuori da sé stesso, tra circostanze che complicano sensibilmente questo cammino.

wonder 3Tessere di questi arazzi sulla natura dell’essere umano e sulla sua spiritualità, è da sempre il fulcro della poetica di Malick. Qui, tutto ruota intorno al dissidio romantico di due giovani adulti, la Parigina Marina, divorziata e con una figlia preadolescente, e Neil, americano. I due, all’inizio della storia, si stanno amando in Francia, intensamente; lui non vuole sposarsi ma conduce la donna e la ragazzina con sé a casa propria, oltreoceano. Segue una lunga serie di raffreddamenti, allontanamenti, di desideri accolti e ignorati, di tenerezze languide, affetti ed erotismi delicati, grondanti d’umanità. Neil è incapace di decidere per qualcosa che possa dare certezze a Marina e soprattutto alla ragazzina, così le due sono costrette a tornare in patria. La coppia si ricongiungerà più tardi, proseguendo un  percorso fatto di nuove gioie e tormenti. Parallelamente a questi sofferti rivolgimenti sentimentali, un terzo personaggio, Padre Quintana, affronta i doveri del suo ministero dialogando a tu per tu con Dio, chiedendogli conto della sua assenza, supplicando il suo aiuto per superare il buio della fede.

wonder 5Malick non racconta una storia: sfuma delle interiorità, dei pensieri in cui ognuno legge qualcosa di sé stesso e della propria storia. Costruisce dei frammenti visivi che realmente ci sanno restituire quell’emozione, quel sentimento che ci è capitato di provare, quella frase che ci ha attraversato la mente. Come tipico, i dialoghi sono allo stretto indispensabile, alludono più che spiegare. Le liti e le riappacificazioni sono offerti come dati di fatto, non occorre elencarne le ragioni. Le immagini sono sia narrative che metaforiche e, talvolta, puramente simboliche; non sempre è facile, ammesso che sia necessario, distinguere un concetto visivo da una concreta azione dei personaggi. Se questi meccanismi erano congeniali al progetto quasi utopistico di The Tree of Life, qui aprono alcune brecce in un mistero più contenuto e di intimo ermetismo: la relazione d’amore tra un uomo e una donna. Il dolore, la tribolazione che da questo amore nasce inevitabile, sono posti, assieme ai dubbi e alla colpa, al cospetto Dio.

wonder 6Il risultato è, come sempre, un’esperienza; un viaggio verso la scoperta dell’essere umano. Un viaggio impegnativo – che per molti sarà, va da sé, indigesto – in cui colpisce la costruzione della labirintica conflittualità umana attraverso la semplicità di immagini quotidiane, puntiformi. Lo sguardo è saziato da questa bellezza che, sempre, accompagna l’uomo, ed esiste in un tramonto come nella linea spezzata dei tetti di un anonimo sobborgo. Esiste in una pozzanghera palustre che riflette il cielo, e in un’orchidea. Sul piano tecnico il film garantisce superbamente questa lettura, attraverso la fotografia al solito magnifica, e quella serie di controllatissime pennellate che è, in Malick, l’arte del montaggio.

La recensione potrebbe anche chiudersi qui, con un caloroso invito ad incontrare questo film, ma La Luce in sala ha una missio ben specifica, e qualche cosa in più occorre dirla.

Ai tempi di The Tree of Life mi sbilanciai – forse un po’ troppo – nel credere (come se fosse stato davvero importante) che Malick fosse cattolico, e ne seguì una discussione tra i commenti con toni anche abbastanza risentiti.

wonder 4Oggi come allora non posso essere certo di cosa Malick stia cullando nella propria inarrivabile mente di poeta, ma chi guarderà questo film interessandosi specificamente ai messaggi confessionali, come già detto, più espliciti e frequenti rispetto al precedente lavoro del regista texano, (una ricerca che in un’opera d’arte come questa ha un retrogusto naif), vi troverà al centro il cattolicesimo. Difficile non pensare, in continuità col cinema precedente, che non vi sia molto di autobiografico, qui. Nel film s’incontra un cattolicesimo che brilla di sincerità, di un’onestà tale da tramutarsi in inquietudine. Non voglio esplicare ogni dubbio, ogni immagine carica di queste tensioni, di questi confronti appena accennati. Non sarebbe giusto, perché raccontare una suggestione o un sottinteso labilissimo, significa annacquare il delicato flusso di coscienza che questo film rappresenta.

Non mancano, dal punto di vista dell’ortodossia, alcune perplessità, la parvenza poco pacifica di alcune scelte. Malick tocca volutamente delle questioni aperte, sui cui la riflessione è ancora accesa. Ma se qui si offre l’immagine di una religione languente, che brilla del suo afflato spirituale ma si lascia opacizzare nel suo “senso formale”, nulla vuole smentirne la verità, non il dolore, il dubbio, né la tensione tra precetto e desiderio. Per questo classifichiamo il film come cattolico: non c’è polemica, non c’è neppure, mi pare, vera critica, ma una ricerca malinconica e speranzosa di Cristo. Risolta in una preghiera di lacerante verità.

Proprio questa preghiera getterà forse un po’ di luce sulla produzione precedente del regista, indirizzandone un’interpretazione meno soggettiva e arbitraria. I film di Malick potranno anche prestarsi a letture plurali, ma la personalità artistica del regista, coerente nei suoi alfabeti, nel trattare l’etereo, non sembra voler mirare all’imprecisione. Ai tempi The Tree of Life, un film che nel suo mistero pareva comunque coinvolgere una sfera abbastanza netta di significati, si è letto veramente di tutto.

Verso la meraviglia… the wonder, nel titolo. Neil e Marina, all’inizio della loro storia, sono presso la “Meraviglia d’Occidente”, ovvero Mont Saint Michel (“Merveille” è anche il nome dato ad alcuni spazi del livello più alto del monastero, tra cui proprio il Chiostro della Meraviglia, dove sono girate alcune scene). Un luogo da cartolina, da fuga romantica, ma un luogo che è anche – e scommetterei sia stato scelto esattamente per questa bivalenza – una roccaforte di Grazia. Un’isola che è una chiesa. La vita con la sua concretezza, le debolezze e i difetti dei due protagonisti, uccidono questo idillio, quest’armonia rosa (e celeste). Vi sono difficoltà, in questa frustrante e incerta vita, la fede che si fa sorda, l’amarezza della sconfitta. Eppure questa vita, per essere tale, tende spontaneamente alla Meraviglia; alla Meraviglia può sempre tendere.

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“Mostraci come cercarti.

Siamo stati creati per vederti.”



FOTOGRAMMA/PENSIERO #20: DJANGO UNCHAINED
2 luglio 2013, 5:03 PM
Filed under: Fotogramma/Pensiero

DJANGO(Django Unchained, USA, 2012, Quentin Tarantino)

Sono tra quanti celebrano Tarantino, piuttosto che esecrarne il massiccio citazionismo o la violenza. Django Unchained si colloca in diretta continuità con Bastardi senza gloria (Quentin Tarantino, 2011), trasferendo l'”esorcismo della storia” dagli orrori europei a quelli americani (con tanto d’incrocio: eroe americano in “terra tedesca” / eroe tedesco in terra americana). Così Quentin riproporziona l’atto cinematografico, sostituendo alla risibilità malinconica di un falso macrostorico, la simpatica rivincita di un’invenzione microstorica.

Una delle qualità di Tarantino è la forte attenzione ai dettagli, aspetto che rende impossibile considerare casuale – ma sarebbe difficile per qualunque film – la presenza di un rosario al polso di Broomhilda. Si tratta della scena inerente un flashback di Django, nel quale sua moglie, mentre egli supplica in ginocchio, viene frustata da due sgherri. Posto che non può trattarsi di un semplice dato di colore, vale davvero la pena di meditare un attimo, azzardando senza pretese alcune spiegazioni. Chi conosce Tarantino potrà confermarmi la sua insofferenza per i contenuti religiosi, dunque occorre dare ad ogni aspetto il giusto peso, non di più. Il motore principale di tutta la tortuosa vicenda dello schiavo liberato Django, è il suo ricongiungimento alla moglie, cui è stato separato da un padrone crudele. Questa ricerca difficile, anzi disperata, non si motiva col semplice amore romantico, che pure è sottinteso e in fondo celebrato. A rendere spontanea questa impresa, a renderla automatica, scontata, fattibile senza batter ciglio… è l’amore sigillato dal matrimonio. È una minuzia un po’ pedante, che ai più sfuggirà o sembrerà un trascurabile dettaglio narrativo… e invece sostanzia pienamente uno sforzo umano temerario, un’implicita preghiera alla fortuna, a dir poco spudorata.

“Django! …Non avevo idea che fossi sposato! Ehm, beh… gli schiavi credono nel matrimonio?”, chiede Schultz, amico di Django e promotore della sua causa; “Oh… io e mia moglie sì. Il vecchio Carruca no, per questo siamo scappati”.

Django e sua moglie credono nel matrimonio, per questo – oltre a quell’amore che dà forma alla nostalgia più dolce e struggente – semplicemente non è loro concesso di arrendersi o dimenticarsi. Non è loro concesso fin che morte non li separi. Il succo è questo. E Tarantino, se ho capito quanto egli tenga al realismo dei suoi personaggi, delle sue trame tutto sommato improbabili, lo specifica appositamente. E lo rimarca con quel rosario strattonato nell’aria dai colpi della frusta. I due credono nel matrimonio perché credono nel loro amore, e possiamo credere che per loro la questione non sia umorale o mentale, ma forte in quanto sacra. E da qui  il plot attinge l’epicità del suo respiro, di un percorso in salita che, come detto proprio nel film, sa di leggendario. È uno stratagemma mirabile utilizzato con rara intelligenza laica, come dato culturale efficace, con sottintesti religiosi concreti ma finalizzati alla trama, non a sé stessi o al loro opposto.

La scelta di Tarantino non è forzata, e viene adottata proprio in forza di precise fattualità storiche. Nella scena scelta per questo ventesimo Fotogramma/pensiero, si allude al sistema filosofico cristiano protestante, il quale aveva strutturato questi errori anche attraverso la strumentalizzazione delle Scritture. Uno degli aguzzini di Broomhilda, uno dei fratelli Brittle, è figura caricaturale di questo meccanismo il quale, mentre la frusta viene fatta vibrare, impugna saldamente una Bibbia e declama i versetti più congeniali al suo sadismo. La cattolicità della coppia, in questo contesto, non solo è compatibile al sentimento di alterità degli aguzzini, ma è correttamente convocata a livello storico: molti schiavi furono infatti cattolici, in particolare quelli prelevati dal Congo.

Tornando al nucleo del discorso, non si deve rimaner stupiti che l’universo tarantiniano contempli questi assoluti, né si dovrebbe forzarli in una direzione confessionale, dal momento che valgono al livello umano più basico e sanguigno. Ho sempre pensato che Kill Bill (Quentin Tarantino, Vol. 1, 2003; Vol. 2, 2004) fosse in definitiva un grandioso affresco sulla maternità. Tolti i fuochi d’artificio rimangono l’amore immenso di una donna per suo figlio,  quello che è disposta a fare per il suo bene, e quello che è disposta a fare per placare il dolore di averlo perduto.

Qui, in D. U. avviene lo stesso per il matrimonio e, rinunciando all’esplicito alone confessionale dell’oggetto scelto, (che comunque stona con l’esasperata vendetta dei film tarantiniani), si può ben guardare all’amore che sa di essere per sempre, e che può produrre una garanzia indistruttibile – quale che possa essere – di questa consapevolezza.

Che simbolicamente il cattolicesimo trasmetta ancora questi antichi valori, che sono certamente religiosi ma altresì squisitamente laici (e Tarantino, essendo “ateiggiante”, lo sa e li sceglie per questo), non può che farci piacere.