LA LUCE IN SALA


LA LOCANDA DELLA SESTA FELICITA’
22 aprile 2015, 11:11 am
Filed under: Cristiani, Film

(The Inn of the Sixth Happiness)

UK, 1958, di Mark Robson, con Ingrid Bergman, Curd Jürgens, Robert Donat…

LALOCANDA DELLA SESTA FELICITàGladys Aylward era una missionaria protestante di origini britanniche che, spinta dall’intima certezza nella propria fede, intorno agli anni ’30 decise di intraprendere tutta sola (per i circuiti missionari organizzati evangelici non era abbastanza qualificata) il viaggio dall’Inghilterra alla Cina. Un’impresa a dir poco eroica, se si considera la mentalità di quei tempi, l’estrema povertà della Aylward e ovviamente, gli enormi rischi che comportava l’attraversamento della Russia comunista e l’insediamento in una nazione culturalmente antipodica.

Alla figura di questa piccola gigantessa della fede cristiana è stato dedicato il libro The Small Woman, scritto da Alan Burgess, in seguito rimaneggiato dalla 20th Century Fox per una celebrazione in salsa hollywoodiana delle virtù della Aylward. Celebrazione che, come si maligna, giusto “prima che lo zelo missionario diventasse sospetto”* attirò di gran carriera una Ingrid Bergman desiderosa di riabilitarsi agli occhi della società dopo la scandalosa relazione con Rossellini.

Il film è un’interessante, per quanto edulcorata (siamo pur sempre nel ’58), narrazione di un episodio che va ad arricchire l’insieme dei racconti su celluloide della diffusione del cristianesimo in Cina. Uno dei capitoli più aspri nella storia della propaganda della fede (che già su queste pagine abbiamo considerato: Le chiavi del Regno, I fiori della guerra, Il velo dipinto, Ombre sulla Cina) e che non cessa di suscitare interesse per i vivissimi collegamenti che richiama alle attuali sofferenze dei cristiani di quella terra.

LA LOCANDA DELLA SESTA FELICITà 01Il film offre il suo meglio nella prima metà, quando seguiamo la determinatissima Gladys nelle avventure londinesi precedenti la missione vera e propria: il lavoro come cameriera per ottenere i soldi del biglietto ferroviario, la traversata transiberiana, l’approdo a una realtà cinese dai tratti ostili, sospettosi e violenti. È in questa prima metà del film che le preoccupazioni religiose di Gladys si esprimono al loro massimo, senza troppe parole ma con l’eloquenza delle azioni coraggiose e misurate, piene di quella pacifica abnegazione che spinge lo spettatore a interrogarsi seriamente sulla provenienza di una tale forza, sul significato di una serie di scelte così poco convenzionali, così… folli. La risposta è ovviamente sottintesa, ma se all’inizio di questa lunga pellicola il messaggio cristiano che la Gladys originaria veicolava con la sua vita appare evidente, con l’incedere della trama abbiamo un progressivo annacquamento delle prospettive religiose, in favore di una visione più assistenzialista. Il proselitismo della donna inglese sembra arenarsi dichiaratamente con una frase quantomeno brusca, pronunciata in risposta proprio alla domanda : “Non state trascurando l’attività missionaria?”. Questa la risposta: “Credete che si tratti di questo? Di raccogliere conversioni come un ragazzo raccoglie francobolli? Per me è convincere tutti gli uomini che davanti a Dio sono uguali, che abbiano fede in Cristo, in Buddha o in niente”. E infatti il film si assesta esattamente su questo orizzonte, con una missionaria sempre più politicizzata e coinvolta nell’attivismo sociale, rivolta alla sua fede giusto giusto nei momenti in cui è narrativamente indispensabile. Un punto di vista, quello dell’eroina cinematografica sicuramente apprezzabile, ma che forse tradisce un po’ il senso interiore della missionarietà. L’aspetto peggiore è che questo progressivo cambiamento avviene soprattutto per fare della vicenda umana della Aylward l’ennesimo polpettone rosa, con tutte le lungaggini del caso che fanno piombare la seconda parte del lungometraggio nella staticità da “film di cui si attende la fine”.

LA LOCANDA DELLA SESTA FELICITà 03A confermarci che i conti non tornano del tutto è proprio la Gladys originaria, la quale inorridì di fronte ai pesanti rivolgimenti operati sulla sua biografia: non solo lei non aveva mai baciato un uomo, ma lo stesso finale della pellicola, che alluderebbe a una sfumatura rosa che non ci fu, tradisce la sua reale decisione di rimanere coi suoi orfani fino alla morte, avvenuta nel 1970**.

Nonostante le inaccuratezze il film merita comunque, in mancanza di un biopic alternativo, di essere visto: la vicenda della Alyward merita di essere conosciuta, e il film può essere considerato un buon punto di partenza. L’ingrediente “religioso” è presente e apprezzabile anche ai minimi termini cui è stato ridotto.

Incontrare Gladys su celluloide permette un viaggio affascinante in una Cina ben ricostruita; un viaggio che riserva tutto ciò che un grande classico offre per definizione, dramma punteggiato da momenti che strappano un sorriso, una storia d’amore tormentata, grandi scenari, grandi ricostruzioni storiche di sicuro impatto (come la scena dei bombardamenti giapponesi sul villaggio della missionaria).

Il film venne interamente girato nel Galles del nord, il cui paesaggio poteva essere assimilato a quello cinese; per realizzare le scene in cui Gladys conduce cento orfanelli in un lunghissimo cammino oltre le montagne per sfuggire ai bombardamenti, sono stati “rastrellati” bimbi di origini cinesi nell’intera Inghilterra.

LA LOCANDA DELLA SESTA FELICITà 02

Questa estenuante marcia di circa cento miglia rappresenta il coronamento narrativo, nel film, dello spirito avventuroso e pieno di fede di Gladys. Questa impresa nella realtà si compì in ventisette giorni, e segnò profondamente la salute della donna, che non tornò mai più ad essere, fisicamente, quella di prima. Non si tratta solo di un esempio del sacrosanto “fare la cosa giusta”, ma piuttosto di entrare in contatto con una dimensione sacrificale molto profonda, e che non per tutti appare di immediata comprensione. Lo dimostra l’abbassamento melenso imposto al film che, per qualche minuto di dolci languidità da vendersi in stock, scioglie il sale bruciante dell’Amore che costa la vita.


*N. Peske, B. West, Cinematerapia 2, un film dopo l’altro verso la felicità, Feltrinelli, 2005, p.230: un aspetto che abbiamo già visto nella recensione de Le chiavi del regno.

**Vennero modificati anche nomi reali molto significativi, il suo stesso soprannome cinese, “Quella virtuosa”, in “Quella che ama la gente”; la reale “Locanda dell’ottava felicità” nella… “sesta”. Il viaggio sulla Transiberiana, difficoltoso all’inverosimile in quel periodo storico, viene liquidato molto velocemente. Gladys considerò inoltre molto offensivo che il personaggio del Colonnello Lin Nan sia stato reso, fantasiosamente, mezzo europeo. Ingrid Bergman infine, alta bionda e svedese, non aveva molto a spartire con l’aspetto minuto e dimesso di Gladys. S. Wellman, Gladys Aylward: Missionary to China, Barbour Publishing Inc., 1998, p. 197 – da Wikipedia.



CALVARY
16 luglio 2014, 10:22 am
Filed under: Cattolici, Film

(Calvary)

UK, 2014, di John Michael McDonagh, con Brendan Gleeson, Chris O’Dowd, Kelly Reilly, Aidan Gillen, Dylan Moran…

Calvary

Quasi un evento. Calvary è un film perlopiù buio e cattivo. Può, un film perlopiù buio e cattivo, essere un film cattolico? Chi mi legge qui da un po’ sa quanto mi piacciano i vecchi film dove l’ateo si toglieva il cappello scherzando bonariamente, e dove il cruccio riccorrente del sacerdote poteva essere, che so, il trovare i fondi per costruire l’orfanotrofio di turno. Belle favolette anni ’50 insomma: quell’immaginario si è esaurito per sempre, oggi l’ateo nutre un rabbioso disprezzo, l’orfanotrofio viene venduto o sprangato; il binomio prete-bambini suscita a molti il gelo… oppure un sorrisetto malizioso. Uno dei paesi da cui gli errori continuano ad essere pubblicizzati in tutto il mondo è uno di quelli a fortissima tradizione cattolica, un paese che dal falso di Magdalene (Mullan, 2002) fino al pluripremiato (ma dai?) Philomena (Frears, 2014), non ha ancora smesso di ispirare lungometraggi basati sulle colpe, vere o presunte, della Chiesa: l’Irlanda. Nell’Isola di smeraldo la religione cattolica è da sempre stata caratteristica spontanea dell’esserci nati, identitaria in senso stretto anche per questioni irredentiste che si rafforzavano a mano a mano che la persecuzione inglese si faceva più pervicace. Fino a poco tempo fa insomma chi diceva “irlandese” diceva “cattolico”, ma finite le vessazioni gli attacchi della secolarizzazione hanno profondamente mutato l’anima e il tessuto sociale della nazione… e poi, “finalmente” sono emersi quegli scandali che “hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione” (Lettera Pastorale del Santo Padre Benedetto XVI ai cattolici d’Irlanda).

Mi sono dilungato in questioni generali solo per meglio presentare e introdurre la mia proposta interpretativa di un film certamente non facile. La lunga serie di pellicole anticattoliche a sfondo irlandese trova dalle vicende meno cristalline della storia recente dell’isola, un efficacissimo casus belli, dal momento che i tratti della critica sono divenuti quelli di una vera e propria guerra. Ecco che allora, se un regista – John Michael McDonagh – ha delle uscite come quelle che riporto qui sotto, iniziare la visione di un film che parla di un sacerdote irlandese dei giorni nostri è molto più interessante del solito.

“L’idea per il film mi è venuta durante la realizzazione di The Guard quando Brendan [Gleeson – protagonista di Calvary] ed io parlavamo di quanto dev’essere terribile per qualcuno che cammina per la strada essere giudicato subito in modo sinistro a causa di quello che indossa. Molti preti divengono preti perché vogliono fare del bene, ma non sono più percepiti in quel modo. L’universo morale è stato capovolto. Quando inizialmente ne abbiamo discusso, ho pensato che ci sarebbero più film cliché in uscita che trattano di preti cattivi. Ho pensato, mandiamo fuori per primo il nostro film su un buon prete, tutti gli altri su preti cattivi possono venire dopo”.*

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Caro John, voglio dirti grazie! Quello che hai detto è oggi più unico che raro, detto da un laico di successo. E la tua carriera sarebbe probabilmente finita qui, se tu non avessi creato un film cattolico in cui sembri essere molto consapevole di questo rischio.

Non siamo tuttavia davanti a un film che smentisce le dichiarazioni del regista (come quella …… schifezza – tutt’altro che intelligente – di Svećenikova djeca), ma un film che le realizza appieno, trovando il modo di piacere a tutti (92% di recensioni positive su Rotten Tomatoes!) sporcando un po’ tutta l’operazione. Dunque ora un dilemma tutto nostro: possiamo prendere per buono l’unico film che da anni parla di un buon prete, accettando alcune volute forzature e distorsioni nella rappresentazione di quello che gli sta intorno? Io ci ho pensato su… e l’ho fatto. Per me questo è un film cattolico, imperfetto e sporco… ma che dando di gomito al mondo anticattolico propone con cautela a quest’ultimo una clamorosa domanda: che stai facendo? Avremmo voluto che McDonagh si immolasse? Ma no, usa al rovescio la tecnica di tanti altri film recenti, in modo che siano visti da più gente possibile: dire quello che si ha da dire in mezzo all’ambiguità, non dichiaratamente, e magari verso le ultime scene (per fare qualche esempio: il già citato Svećenikova djeca (Bresan, 2013), ma anche l’americano – oscenamente anticristiano – C.O.G. (Alvarez, 2013), l’olandese Hemel Op Aarde (Frost, 2014). Non tutto ci piace, l’ho già detto e ci tengo a ripeterlo. Dopo un’accurata valutazione a caldo (l’ho visto una sola volta!) – posso dire che questo è un film che meritava di essere recensito. Può non essere considerato cattolico per vari motivi, può deludere per alcuni aspetti… ma è un film per cui scomoderei l’etichetta “di trincea”.

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Per farvi capire il tenore generale, che incarna niente di più che l’abituale crudezza british su pellicola, eccovi le prime dieci parole (siano un monito alla sensibilità del lettore che sta decidendo se vedere il film): “La prima volta che assaggiai il seme avevo sette anni”. Siamo in un confessionale, e ad ascoltarle disorientato c’è Padre James, il protagonista. Poco dopo gli viene comunicato che tra una settimana sarà ucciso, a causa delle colpe di un suo collega trapassato naturalmente. “ Io la ucciderò padre, la ucciderò perché non ha fatto nulla di sbagliato. La ucciderò perché lei è innocente”. Innocente come erano innocenti i bambini violati, ma anche e soprattutto ‘eco di ciò che si è voluto far accadere nell’opinione pubblica: basta leggere sopra all’assassinio fisico, un omicidio d’opinione, un dissanguamento filosofico. E già qui il senso di un titolo profondo come Calvary appare chiaro, ma il regista – che è anche scrittore del film – fa un ulteriore passo per contestualizzarlo in modo completo. Egli descrive cioè il gregge affidato a Padre James come un insieme di tipi umani “osceni e terribili”, stando alle sue parole. Il sacerdote è un uomo retto e semplice che agisce in un mondo popolato di persone ciniche e svuotate di ogni morale, ogni delicatezza e sensibilità; non manca nemmeno un collega presbitero di insopportabile insipienza spirituale (un campionario degli irlandesi 2.0, sembra voler suggerire McDonagh). Da questa turba di grottesche ed iperboliche pecorelle dovrebbero così venire le occasioni di dialogo proprie di una commedia nera, come viene definito il film. I picchi di cinismo possono eventualmente far sorridere con un’amarezza ben poco divertita, sfaccettando la sensazione di solitudine del sacerdote. Un sacerdote tra l’altro molto intelligente, che non combatte inutili battaglie (una scelta dolorosamente lucida, non disfattista o pigra) ma che forse ci sarebbe piaciuto, in qualche occasione, meno stanco e desolato (ma non possiamo in nessun modo biasimarlo). Lo avremmo voluto forse più ciarliero, con la risposta in tasca… ma è un personaggio con il suo carattere, e questo va accettato.

Ripeto ancora che il film fa tutto il possibile per non incensare la Chiesa: non è sempre onesto nei suoi riguardi per i motivi già spiegati… eppure, lo sguardo di McDonagh è partecipe della sofferenza del suo personaggio. Lo accompagna nel suo calvario descrivendo momenti che, al cinema, avevo definitivamente disperato di poter vedere. Mostra come il grave crimine di alcuni uomini di chiesa abbia effettivamente danneggiato tutti, non solo le prime vittime di quegli atti, ma anche altri innocenti. Pare chiedersi se la politica del “dagli” al prete in quanto prete, sia in ultima istanza una buona idea… non solo per i sacerdoti che non hanno fatto nulla di male e che anzi si sforzano di aiutare, ma anche per coloro sui quali quell’aiuto potrebbe ricadere. Ne hanno bisogno di quell’aiuto? Cosa accade quando quell’aiuto viene quotidianamente e gratuitamente disprezzato? L’uomo è felice e completo, sguazza nella meraviglia, quando quell’aiuto è mortificato ancora e ancora e ancora?

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Anche dal punto di vista tecnico il film è del tutto apprezzabile. La scelta delle inquadrature è non di rado interessante, e almeno visivamente, quella poesia che i personaggi neutralizzano con le loro parole, invade lo schermo con ripetute fascinazioni. Gli attori sono tutti davvero capaci, Gleeson ha dato al cinema una figura di sacerdote particolare, intensa e memorabile. Voglio spararla grossa: si inserirà a buon diritto nel solco dei sacerdoti sofferenti di Bernanos e Marshall, attualizzandone crudelmente lo strazio. Divertente rivedere Aidan Gillen, il viscido Lord Baelish de Il Trono di spade prestare il volto alla versione 2.0 del medico ateo cinematografico. Non di rado – pregio dei pregi – sono le parole del film, i dialoghi, ad essere semplicemente meravigliosi. È il caso, per fare un esempio, di una delle battute dal tratto meta-cinematografico appunto di Gillen: “Certo. Il medico ateo. È un ruolo classico da recitare. Non ci sono così tante buone battute. Una parte umanesimo e nove parti di umorismo macabro. Recitare lei invece? Quello è interessante. Il buon prete.” Una frase detta per ferire, da un personaggio che a conti fatti appare forse soprattutto invidioso. Ed è un po’ questa la chiave di lettura del film: un tiro al bersaglio gratuito contro un oggetto d’odio giustificato, ma per cui si inizia a sentire nostalgia prima che sia completamente distrutto. Un riconoscere con ironia grondante sospetto quanto sia “interessante”, il ruolo del buon prete.

Consigliato.



GIMME SHELTER
13 Maggio 2014, 9:04 PM
Filed under: Cattolici, Film, Pro Life

(Gimme Shelter)

USA, 2013, di Ron Krauss, con Vanessa Hudgens, Rosario Dawson, Brendan Fraser, Stephanie Szostak, James Earl Jones…

Gimme_ShelterInauguro finalmente la sezione Pro Life  del sito (un film Pro Life è per sua natura anche cattolico!) con un titolo davvero imperdibile basato su una storia vera, Gimme Shelter. É un buon film, cioè buono nel senso che può davvero, a differenza della robaccia vacua e tecnicamente perfetta sfornata a nastro, instillare nel mondo una lacrima di senso. E ok sapete che non sono un critico, ma un po’ di buon gusto penso di averlo, dunque a fronte di un prodotto obiettivamente discreto temo che il motivo per cui la critica lo abbia giudicato così male stia proprio nella sua intrinseca bontà. Vecchia storia: pazienza.

“Apple” è una ragazzina di 16 anni che nella vita ha conosciuto soltanto abusi e si è fatta la trafila classica di questi drammi americani contemporanei: casa di cura/isolamento, serie scandalosamente lunga di case famiglia, violenze varie. Apple (il suo vero nome è Agnes, ma lei preferisce questo, dunque da ora tolgo anche le virgolette), scappa. Corre via lontano da sua madre avendo come unico riferimento, in un mondo che pare creato solo per spezzarla, l’indirizzo di suo padre. Questi è un pezzo grosso di Wall Street che vive in una vera e propria reggia con la sua famiglia: compresa la situazione decide di ospitarla almeno temporaneamente. Dopo appena un paio di giorni Apple manifesta gli inequivocabili sintomi di una gravidanza. A nulla valgono i suoi tentennamenti: le viene apparecchiato dinnanzi il tavolo operatorio a suon di domande fatte di un realismo volutamente schiacciante: come farai? Pensi di avere l’età per una gravidanza? Vuoi finire come tua madre? Apple scappa di nuovo. Lei sa cosa vuol dire essere respinti. E lo saprà fino a quando, lottando contro sé stessa e un passato tornato a morderla, giungerà in una casa di accoglienza per ragazze in dolce attesa.

01bFinito il film ho pensato un po’ ad Apple e a quanta stima io provi per lei. Da dove le è venuta l’istinto di scappare davanti all’aborto? Da dove, avendo lei imparato che le madri sono esseri violenti e le famiglie dei contenitori precari che attendono solo un assegno governativo? Perché lei che è povera, ignorante e ferita intimamente dal mondo conosce il significato di una vita che nasce? Forse in quest’ultima domanda c’è anche la risposta: la famiglia di suo padre, dove ci sono milioni di dollari e lauree, granito e domestici che servono a tavola, non tollera la semplice verità che il germogliare di una nuova vita vale ogni sacrificio… e arriva a non considerarne, date le sue possibilità, nemmeno uno infinitesimo. Quando si è in cima al mondo, accecati dalle lusinghe di una posizione ove il mantra d’obbligo è “sei tu la persona più importante del cosmo”, sembra che fare un solo passo indietro abbia un costo relativo superiore  all’intera esistenza di un bambino… di un uomo.

01cLa vita che nasce trova così accoglienza in una struttura che è costruita sui sacrifici. È gestita da una donna che ha donato la sua casa e il suo impegno affinché le ragazze coraggiose avessero i mezzi per esserlo fino alla fine.

Il film può affascinarci, intendo qua, su queste pagine, anche per l’ambientazione cattolica. Si tratta di un aspetto puramente contestuale, volutamente non insistito. Mi soffermo a notarlo solo per una coerenza interna del blog, ma il regista, che è anche lo scrittore del film, è in grado di gestire questo aspetto nel modo migliore per il bene del messaggio che si vuole veicolare: sceglie l’equilibrio confessionale, pone al minimo la religiosità, non descrive un’opera pia come un monolite di certezze. Insomma, la preziosità della vita dovrebbe essere un postulato universale.

01aIl film si presta molto bene per la visione finalizzata al dibattito con gruppi di giovani. I contenuti e le evoluzioni della trama offrono anche spunti che qui, per evitare di rovinare la visione, ho omesso.

Fa piacere che Vanessa Hudgens, l’attrice protagonista, abbia fatto questo passo: speriamo non abbia messo una pietra tombale sulla sua carriera claudicante proprio ora che abbiamo potuto apprezzarne al pieno le capacità.

Postilla musicale: notare Lana del Rey con Born to Die ma anche l’azzeccata A Mother’s Prayer di Celine Dion, nei titoli di coda.



LE CHIAVI DEL PARADISO
6 Maggio 2014, 3:07 PM
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(The Keys of the Kingdom)

USA, 1944, di John M. Stahl, con Gregory Peck, Thomas Mitchell, Vincent Price, Benson Fong, Leonard Strong, Rose Stradner…

keys-of-the-kingdom-movie-poster-1944-1020746572Quale modo migliore per festeggiare l’uscita in DVD di un film introvabile, se non quella di proporvene la recensione? Le Chiavi del Paradiso, tratto dall’omonimo romanzo di A. J. Cronin (nel quale si narrano la vicende del missionario in Cina Padre Francis Chisholm), è uno dei tasselli più eloquenti dell’ “antica” produzione hollywoodiana già profondamente affine al cattolicesimo. Facciamo infatti continua esperienza di quanto i tempi siano profondamente mutati rispetto ad allora, trovandoci oggi in prossimità all’acme di un processo iniziato appena qualche lustro dopo il ’44 (l’anno del film), ovvero quando si muovevano i primi passi in questo senso posizionando il tema missionario sotto una luce sospettosa, critica e, come sostiene Philip Jenkins (ne La terza chiesa, Roma, 2004, p. 60) “ipercritica”; ovvero con produzioni in questo filone che, dopo il film di Stahl, conducono direttamente al The Mission di Joffé e al meno conosciuto La generazione rubata (Noyce). Così Jenkins centra, secondo noi, la questione:

“tutte queste opere recenti presentano un’idea grossomodo simile della realtà missionaria. Soprattutto le missioni rivelano un errore di concezione; se tutte le tradizioni religiose hanno un valore più o meno uguale, a che scopo mettere i pregiudizi di una cultura al di sopra di quelli di un’altra? Questa visione di perfetto relativismo viene meno, in qualche modo, quando si parla del cristianesimo occidentale, dato che esso è visto come un modello ipso facto meno valido e attraente di quelli che vuole sostituire. Generalmente il cristianesimo, più che una religione, sembra essere un insieme di pregiudizi e inibizioni occidentali”.

chiavi del paradiso 01Proprio questa cruda verità rende sempre straniante la visione di questi grandi classici, pare infatti impossibile non tanto la generosità e compiacenza con cui la Chiesa veniva in essi descritta (non escludendo di osservarne i difetti per dare forza alla verità, suggerire – simulare? – un’obiettività di giudizio), quanto all’apparente sovrapposizione d’intenti tra la major di turno e, appunto, la Chiesa: catechizzare, confermare nella fede, infervorare. Naturalmente alla 20th Century Fox interessava assai più caldamente il profitto – sarebbe ingenuo pensare il contrario – ma ciò non sminuisce affatto la portata di quanto andavo dicendo, rendendolo anzi ancor più significativo da un punto di vista sociologico: si offriva insomma al pubblico, proprio come oggi, ciò che avrebbe potuto rivelarsi un successo. Per capire quanto sbancare i botteghini contasse su un massiccio pubblico religioso basta soffermarsi un momento sui tracotanti slogan del trailer d’epoca, ove insistendo sulla matrice letteraria del film si proclama “Dalle pagine che hanno toccato e rapito il cuore di 30.000.000 di persone… libro del mese della club selection… definito come la storia più memorabile nel Ladies Home Journal; la 20th Century Fox presenta un lungometraggio che sarà celebrato come indimenticabile…” e via dicendo. Siamo negli anni in cui la National Legion of Decency – di ispirazione cattolica – aveva notevole potere, ma è altresì cruciale che a spingere Darryl Zanuck (il responsabile della produzione Fox dell’epoca) nell’impresa di questo titolo (con una delle cifre più alte dell’anno, ben 3.000.000 di dollari), fosse stato lo straordinario successo riservato, una manciata d’anni prima, a A song for Bernadette. Per la serie “come eravamo”, il cattolicesimo costituiva insomma una garanzia di successo: lo sapevano i dirigenti, e lo sapeva la turba di artisti alla costante ricerca del copione azzeccato, attori e registi (persino Alfred Hitchock aveva accarezzato seriamente l’idea di girare questo film!).

chiavi del paradiso 02Ma veniamo alla sinossi. L’anziano Padre Francis Chisholm è in osservazione della diocesi poiché potenzialmente problematico: i 33 anni trascorsi in estremo oriente l’hanno reso insofferente, non troppo mite e – per la sensibilità di quegli anni – intellettualmente esplosivo. Il monsignore incaricato di giudicarlo ripercorrerà così, per caso, l’intera vicenda dell’osservato attraverso le sue memorie scritte. Queste descrivono la vita del prelato sin dalla felice infanzia trascorsa con un padre cattolico e una madre protestante, poi una serie di vicende sfortunate e infine la scelta del sacerdozio. Il suo spirito non convenzionale spingerà la diocesi a inviarlo in estremo oriente, in Cina, dove il prelato, tra enormi difficoltà, riuscirà ad avviare un proficuo centro missionario. Nel trascorrere degli anni si avvicenderanno episodi avventurosi e di profonda crisi (gli scontri armati, l’epidemia di colera…), mentre fra le mura della missione si assistono a tensioni interne dovute al contrasto tra Padre Chisholm, di umili origini, e una sua sottoposta, Madre Maria Veronica , di nobile lignaggio.

Il film mostra tutti i crismi di una produzione che reca sulle spalle i 70 anni d’età: alcune ingenuità, stilemi che al nostro palato sanno inevitabilmente di vetusto, consistenti differenze comunicative. Posto che il gusto della visione non stia proprio nel soppesare questa distanza, si può dire che nonostante la pellicola possa quasi etichettarsi come “film per nostalgici”, essa risulta ancora godibile in forza di una trama avvincente, un’ambientazione esotica desueta e affascinante (per altro tutta artificiale, ricostruita negli studi della Fox), e soprattutto (per lo spettatore cattolico), la descrizione serena di un operato missionario avventuroso e di cocente spiritualità, aperto a momenti di grande empatia, sorpresa, suspence e riflessione. Le oltre due ore di film scorrono insomma con ritmi alterni, ma senza mai annoiare.

chiavi del paradiso 03Colpisce inoltre l’interessante descrizione di una Chiesa indagata nelle sue ormai antiche aritmie sociali e nelle emergenti sfumature “protoconciliari”: in ciò il film offre senz’altro i contenuti storicamente più intriganti, tutt’altro che risolti in un atteggiamento di denuncia ma narrati, a mio avviso, nella fiduciosa consapevolezza di un’imperfezione in costante perfezionamento. È il risultato della rimozione o dello smussamento attento degli ingredienti più controversi del bel romanzo di Cronin (rimaneggiamenti che comunque non dispiacquero all’autore), nella ricomposizione di vere e proprie “smagliature teologiche” (Francesco Licinio Galati*) al limite dell’irenismo più spericolato. Si ottenne così un prodotto che rifuggendo la polemica si proponeva sulla scena mondiale con ortodossia, composte spinte ecumeniche e tuttalpiù qualche punzecchiatura – forse anche salutare – su alcuni specifici tipi di sacerdote.

Il riuscito ritratto cinematografico di Padre Chisholm è dovuto in massima parte al carisma di Gregory Peck, che a questo ruolo dovette la candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista e il definitivo e ininterrotto decollo della propria carriera.

chiavi del paradiso 04Senza indulgere ulteriormente nel discutere di un film che in gran parte dev’essere scoperto, chiudiamo con una testimonianza di Peck sul film: “Mi aiutò moltissimo un certo Padre O’Hara, un missionario cattolico che aveva vissuto in Cina per otto anni e che conosceva il cinese. Rammento in particolare una scena in cui io avrei dovuto pregare in cinese, ma non riuscivo ad immedesimarmi; non so, non mi sentivo naturale. Allora Padre O’Hara si offerse di recitare la scena al posto mio. Cominciò a camminare in mezzo alla folla di comparse cinesi, facendo tintinnare un campanellino d’argento; davanti a ogni fedele si inchinava con grazia solenne e poi cominciava a parlare in cinese. Ripeteva ciò che aveva già fatto migliaia di volte nella vita. Allora capii perché non ero stato capace di recitare quella scena: mi mancavano quella grazia solenne e il profondo rispetto per ogni persona come individuo”. (J. Griggs, Gregory Peck, Roma, 1984, p.27)



LES MISÉRABLES
4 febbraio 2014, 10:07 am
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(Les Misérables)

UK, 2012, di Tom Hooper, con Hugh Jackman, Russell Crowe, Anne Hathaway, Amanda Seyfried, Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter…

les-miserables-poster-italianoCONTIENE SPOILER – Come sia possibile che due autori ebrei (Alain Boublil per la versione francese, Herbert Krezmer per la trasposizione – con ampliamenti – in inglese), mettendo mano al capolavoro di un capostipite dell’anticlericalismo contemporaneo (Hugo), abbiano partorito un’opera dal cattolicesimo palpitante, è questione dai risvolti per lo meno interessanti.

Oggi possiamo godere, grazie all’ottimo lavoro del regista Tom Hooper, di un lungometraggio che renda onore alla versione musical del romanzo; pellicola che a sua volta (ancora inaspettatamente), insiste in una dirittura cattolica dell’opera.

L’epicità delle vicende narrate, e la partecipazione dello spettatore che ne scaturisce immancabile, risalgono al fatto che la storia (nel musical e ovviamente nell'”epos” da cui è pressoché fedelmente traslato) percuote l’idea di Essere Umano nelle viscere attraverso concetti di cui oggi, soprattutto nel cinema, c’è profonda nostalgia: perdono, redenzione, virtù, sacrificio. Quattro pietre d’inciampo che un po’ per motivi squisitamente storici e culturali (il romanzo è diffuso nella Francia del 1862), ma soprattutto per la personale ricerca filosofica di Victor Hugo, si muovono in un’orbita sì oscillatoria, ma chiaramente cattolica. Del resto è una caratteristica interiore di tutto il genere del romanzo storico europeo, quali che ne siano le tesi: l’appoggio a premesse filosofiche desunte dalle strutture teologiche cristiane è di fatto ineludibile: “Le catacombe in cui si è detta la prima messa non erano soltanto le cantine di Roma, ma il sotterraneo del mondo” (1), per dirla con Hugo stesso.

1Credo che liquidare il film di Hooper -imperdibile- con un commento entusiasta e la facile etichetta di “film cattolico”, sia un’occasione sprecata per penetrarne veramente la radice originaria, certificandone la religiosità che ne costituisce l’impalcatura interna e che è altresì affair delicatissimo, da rapportarsi obbligatoriamente alle spigolosità di un romanzo immortale di parentela giacobina, il quale fu, com’è noto, messo persino all’indice. Aspetto quest’ultimo che non fa che rendere ancor più stuzzicante e necessaria la comprensione delle opposte tensioni tra film e romanzo, anticlericalismo e cattolicesimo.

2Per poter proseguire è necessario un accenno all’inizio della trama. Protagonista della lunga vicenda è il forzato liberato Jean Valjean; questi, incarcerato oltre vent’anni addietro per il furto di un tozzo di pane, esce dal bagno penale intimamente abbruttito e carico di odio distruttivo. Respinto come lebbroso dall’intera società, come richiesto dal suo curriculum, troverà unico rifugio da una notte invernale nell’accoglienza del vescovo di Digne, Monseigneur Bienvenu. Jean, predatore capace di sola vendetta, si alza nel cuore della notte, ruba l’argenteria da tavola e fugge via. Il mattino dopo è riconsegnato da due gendarmi al prelato, il quale, contro ogni previsione, nega di essere stato derubato, ma anzi, di aver donato di sua libera iniziativa quel piccolo tesoro al suo “amico”. L’atto d’amore deliberato di Monseigneur Bienvenu demolisce l’intera personalità di Valjean, lo sconvolge profondamente invertendo tutte le sue logiche: da questo momento sarà una persona nuova, una persona per cui il bene diventa l’obbligo, il compromesso impossibile. Les Misérables apre poi molte parentesi narrative sull’amore, la povertà, la ribellione politica e via dicendo, diviene un romanzo pressoché corale, ma la sua radice, il filo conduttore ultimo, è la peregrinazione esistenziale di Valjean, la sua estenuante e difficilissima lotta – esteriore e soprattutto interiore – per conservare quel tocco divino accorso a salvarlo.

Monseigneur Bienvenu è il motore della storia, il big bang narrativo di trama, sottotrama, poetica e morale . È questo il motivo per cui Hugo spende una notevole quantità di pagine per caratterizzarlo con la massima precisione (ci viene riportato anche il rendiconto di come egli usufruisce del suo vitalizio!): è sostanzialmente un bravo prete e una persona degna di credibilità se non di stima, una specie rara, sembra dirci Hugo, di cristiano non ipocrita.

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Ma perché Hugo, vate del radicalismo repubblicano, piazza in questa posizione un vescovo? Un signorotto con le mani in pasta negli strascichi dell’ancient régime? Come noi se lo chiedeva il figlio dello scrittore che, come testimoniato dalla sorella Adele nei suoi diari, sconcertato dalla scelta del padre lo coinvolgeva in accese discussioni: perché un prete? Perché non un medico? Uno scienziato? Una qualunque mente illuminata? La risposta di Hugo ci fa riflettere:

“Non posso mettere il futuro nel passato. Il mio romanzo si svolge nel 1815. Del resto, questo sacerdote cattolico, questa pura e alta figura di vero sacerdote è la satira più sanguinosa del sacerdote attuale. Non mi interessano le opinioni dei repubbicani ciechi e ostinati. L’uomo ha bisogno della religione. L’uomo ha bisogno di Dio. Lo dico ad alta voce, ogni notte io prego” (2).

Quale sia la religione di cui ha bisogno l’uomo, e quale sia il senso della preghiera, Hugo non lo specifica, ma intende certamente quell’idea generica e filomassonica che gli consentì, senza battere ciglio, le parentesi di acceso anticlericalismo che si ravvisano, tra i molti esempi, anche nei capitoli centrali de I Miserabili. La parabola religiosa di Hugo, granitcamente cattolico in gioventù e rientrato all’ovile prima della morte (stando alla testimonianza di S. Giovanni Bosco, che ne fu l’artefice), qui interessa solo in funzione del contenuto del suo romanzo: nelle molte pagine di cui si compone la sua opera emerge infatti un cattolicesimo latente, quasi schizofrenico. Dietro all’esigenza di realismo (“non posso mettere il futuro nel passato”) si nascondono quei germi dottrinali ricevuti negli anni infantili, ed essi contaminano, volente o nolente, la filosofia che vorrebbe emanciparsene. Monseigneur Bienvenu è frutto lampante di questa commistione, di questa ricostruzione storica inflazionata da un ricordo spirituale. Insomma, se la religiosità più “adulta” del poeta ha potuto disfarsi di chiese e superstizioni, ne I Miserabili a ottenere l’impossibile (il rivolgimento completo di un’anima), è proprio un faccendiere di questi elementi.

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Bienvenu, in quella che secondo Hugo dovrebbe essere l’esemplarità, cede ad atteggiamenti talvolta… diciamo lievemente sospetti; ingredienti che narrativamente ne arricchiscono il ritratto rendendolo sfaccettato ed umano. C’è in lui un lieve assaggio di quel pressapochismo deista che ai palati cattolici coevi doveva risultare pericoloso: non che non lo fosse, ci mancherebbe, ma nel vescovo di Digne è dosato con estrema attenzione, pena mancare la credibilità del personaggio; e se alcune sue uscite fanno un po’ di equilibrismo tra religione e scienza sociale, altre hanno il preciso scopo di qualificarlo come un consapevole uomo di Chiesa (una frase fra tutte: “Non sono al mondo per salvare la mia vita, bensì per salvare delle anime”). Si tratta perlopiù di piccoli episodi che incorniciano la limpidezza evangelica del vescovo, senza intaccarne veramente il ministero; rivelano piuttosto le piccole voluttà ideologiche cui non seppe sottrarsi il grande scrittore (3) (talvolta con esiti rasentanti il naif: Bienvenu sarebbe stato casualmente notato – prima di divenire vescovo – da Napoleone in persona, e raccomandato dunque allo zio, il cardinale Fesch).

Apriamo poi una parentesi che riguarda un altro personaggio rilevante: Marius, un giovane idealista, dottore in legge dotato di tutte le qualità della nuova epoca (e che combatterà anche nelle barricate). Per motivi che sarebbe troppo difficile spiegare verso la fine del romanzo egli si trova a dover decidere, conosciutane l’identità di ex forzato, della sorte di Valjean. Il giovane allontana Jean, lo invita all’esilio: è del tutto incapace di replicare una minima parte di quanto fece all’inizio della vicenda un membro del clero.

Chiarita l’impronta di Monseigneur Bienvenu passiamo adesso a una valutazione di più ampio respiro sulla “sensazione” religiosa che Hugo imprime al suo romanzo. Che lo scrittore fosse stato in passato un fervido cattolico risulta chiarissimo in qualche passo per le suggestioni, le atmosfere che lo scrittore riesce a creare: una volta rimessosi sulla strada, successivamente al perdono del vescovo, Valjean è in preda ai più cocenti dissidi interiori. É intimamente ferito più che guarito, e agisce per l’ultima volta nel male, scientemente, derubando un ragazzino di una moneta. È un piccolo episodio (solitamente, come comprensibile, omesso dalle trasposizioni cinematografiche), che ha il difficile compito di completare la rivoluzione interiore del “miserabile”. Hugo riesce a rendere perfettamente la perdita della Grazia, anzi, la perdita della Grazia dopo che la si è appena ottenuta (deve insomma averne saputo qualcosa di confessionali e assoluzioni). È questo contrasto, questa riaffermazione del male dopo aver conosciuto il bene che spinge definitivamente Jean ad agire di lì in avanti, sotto lo sguardo del Signore, divenendo di fatto agente della Sua provvidenza.

Un altro aspetto fondamentale della dirittura religiosa dell’opera è infatti proprio la Provvidenza, la quale con discrezione, ma talvolta clamorosamente, rivela che lo sguardo di Dio è partecipe alle sofferenze di Valjean, lo accompagna e ne accoglie i sacrifici con “meccanismi” che sono l’antitesi del distacco che ci si aspetterebbe da un Grande Architetto qualunque. Il Dio dei I Miserabili tesse il suo complesso arazzo comprimendo il male negli orditi del bene.

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Osserviamo ora l’anticlericalismo più scoperto, per il quale Hugo si ritaglia l’occasione parlando della storia del convento parigino del Petit Picpus, nel quale si svolgono numerose scene. Sono le pagine più eterodosse di tutto il romanzo, nel quale lo scrittore si accanisce, come vuole la miglior tradizione anticlericale francese, sulla vita monastica. Nulla che Diderot e compagnia bella non avessero già detto a loro tempo, ma in Hugo, nell’esposizione logorroica, l’argomento si colora di contraddizioni e di quello che prima definivo “cattolicesimo schizofrenico”. La prosopopea anticattolica dedicata ai monasteri è copiosissima, attingiamo a caso qualche esempio: “Il convento […] è una delle più cupe concezioni del Medioevo. Il chiostro è il punto d’intersezione dei terrori. Il chiostro cattolico propriamente detto è tutto pieno della tetra irradiazione della morte”; “Chi dice convento dice palude. La loro putredine è evidente, il loro stagnamento malsano, la loro fermentazione dà la febbre ai popoli e li intristisce; il loro aumento diventa piaga d’Egitto”; “Quanto a noi rispettiamo qualcosa e risparmiamo tutto il passato, purché accetti di essere morto. Se vuol essere vivo, l’attacchiamo e cerchiamo di ucciderlo. Superstizioni, bigottismo, bacchettonismi, pregiudizi, queste larve, quantunque non siano che larve, si aggrappano alla vita; hanno denti e unghie nel loro fumo, bisogna spegnerle corpo a corpo, far loro guerra e fargliela senza tregua, perché è una fatalità dell’uomo essere condannato all’eterno combattimento coi fantasmi”.

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Parole tagliate con la scure (o la ghigliottina), cui seguono o s’inframmezzano o fanno eco più tardi nel testo punzecchiature all’ateismo (“C’è una filosofia che nega l’infinito. C’è anche una filosofia, classificata patologicamente, che nega il sole; questa filosofia si chiama cecità”); ridimensionamenti arruffati (“Noi biasimiamo la chiesa quand’è satura d’intrigo, disprezziamo lo spirituale quando viene dopo il temporale; ma onoriamo ovunque il pensatore. Salutiamo chi s’inginocchia. Una fede: ecco ciò che necessita all’uomo. Sventura a chi non crede in nulla!”); vere e proprie rigirate di frittata (“Non c’è forse opera più sublime di quella che fanno quelle anime. E aggiungiamo: forse non c’è lavoro più utile”; “Ci vogliono quelli che pregano sempre per coloro che non pregano mai. Per noi tutta la questione sta nella quantità di pensiero che si unisce alla preghiera”); dichiarazioni di incertezza (“Quando si parla di conventi, di questi luoghi di errore ma d’innocenza, di smarrimento, ma di buona volontà, di ignoranza ma di devozione, di supplizio ma di martirio, bisogna sempre dire sì e no”); tentativi grossolani – a tratti risibili – di sintesi estrema (“dal punto di vista strettamente filosofico […], a condizione che il monastero sia assolutamente volontario e non racchiuda che dei volontari, considererò sempre la comunità claustrale con una certa gravità attenta e, sotto qualche punto di vista, deferente. Dove esiste la comunità là c’è il comune, c’è il diritto. Il monastero prodotto della formula: Eguaglianza, Fratellanza. Ah, com’è grande la libertà!… e che trasfigurazione splendida! Basta la libertà per trasformare il monastero in repubblica”); straordinarie concessioni di ammirazione (“Quanto a noi che non crediamo in ciò che quelle donne [le monache] credono, ma che come loro viviamo nella fede, noi non abbiamo mai potuto considerare senza una specie di terrore sacro e tenero, senza una specie di pietà e d’invidia, queste creature devote, tremanti e fiduciose […]”; “[Valjean] aveva sotto gli occhi il culmine sublime dell’abnegazione [le monache], la più alta cima della virtù possibile; l’innocenza che perdona agli uomini le colpe commesse e che espia per loro; la servitù subita, la tortura accettata, il supplizio richiesto dalle anime che non hanno peccato per le anime che hanno errato; dolci essere deboli aventi la miseria di coloro che sono ricompensati”).

Ciò che nel flusso chilometrico dei testi di Hugo diviene una girandola di pensieri che ritornano su sé stessi in ripensamenti e aggiustamenti, nella crudezza delle estrapolazioni appena effettuate provoca un senso di grave indeterminatezza di fondo. Da quest’analisi – e limitatamente a Les Misérables – non si può che rilevare un anticlericalismo sofferto, nervosamente impreciso.

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La vita di Valjean è una costante lotta per il bene, nelle difficoltà più disperate, nelle tentazioni indefesse verso il compromesso, l’odio, la salvaguardia del proprio egoismo, nelle incomprensioni e nella solitudine assoluta: con la pazienza di chi ha definitivamente capito, tutto viene – con grande fatica e sforzo – sopportato e posto sotto lo sguardo di un Dio benevolo e accogliente. Non ci vuole granché a capire, per quanto non venga palesato a parole, che Valjean tende tutto sé stesso alla santità (nel senso letterale, cristiano, del termine). Non è poco, considerando la reputazione della penna da cui è uscito.

Sul letto di morte Valjean non fa chiamare sacerdoti, rifiutando dunque i sacramenti; Hugo in questo modo riequilibra ciò che avrebbe rischiato di risultare definitivamente incoerente con la sua battaglia. Tuttavia anche un fatto così forte viene mantenuto nell’ambiguità, e circondato di attenuanti: Valjean è convinto di non meritare nulla, di essere ancora un reietto che tutto deve subire e nulla attendere. E chiama a sé, tuttavia, comunque un prete: “-Volete un prete? / -Ne ho già uno – rispose Valjean. E parve accennasse col dito a un punto sopra il suo capo, quasi ci scorgesse qualcuno. È probabile infatti che il vescovo assistesse a quell’agonia”.

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Les Misérables dunque, malgrado tutto, a mio avviso è un romanzo quasi cattolico; espressione d’un cattolicesimo infettato, aggredito e al contempo ribadito in un processo narrativo che ai giorni nostri può serenamente (ovviamente intendo da un punto di vista religioso) essere apprezzato.

Nel momento in cui ci si è proposto, arditamente, di applicare al romanzo le strutture proprie del musical, la componente cattolica che abbiamo sin qui osservata è stata pienamente accolta e potenziata per far fronte a inevitabili esigenze di sintesi, chiarezza, introspezione tramite il soliloquio/assolo (ecco il perché delle numerose preghiere cantate). Il percorso di Valjean è un percorso cristiano-cattolico: per renderlo realmente credibile in tutta la sua forza in uno show che per raggiungere l’eccellenza deve frustrare la complessità del testo originario (comprimendolo entro una struttura musicale obbligata, una “scaletta” che intrattenga), è stato necessario renderlo riconoscibile, motivarlo in ogni punto del narrato.

Gli autori, a dispetto – come dicevo nell’incipit – delle loro origini, hanno sublimato i germi cattolici utilizzati da Hugo in una trasfigurazione di impressionante intensità.

Il musical, apprezzabilissimo dunque anche per i contenuti, risulta tuttavia superficiale se raffrontato alla complessa poetica di Hugo: nell’economia dello show si sono dovuti sacrificare o snaturare numerosi momenti interessanti. È il motivo per cui talvolta si parla, per la trasposizione da palcoscenico, di “opera a sé”. Non sono della stessa idea: alcune ricomposizioni e addensamenti hanno scontentato anche me, ma lo spirito ultimo – e semmai è qui che si dovrebbe discutere – mi pare sia rimasto intatto: non mi sento di pretendere, dalle penne che hanno costruito lo spettacolo, un “miracolo” ulteriore rispetto a un testo melodico di assoluta bellezza, grandioso almeno quanto il testo di Hugo esigesse. La religiosità dei personaggi, Valjean in primis, è un ingrediente sapientemente sfruttato per fa parlare i personaggi dei loro dissidi, ma anche per innalzare tutto quanto su un livello più ampio e universale (proprio come voleva il poeta). La polemica religiosa è espunta sin dalla radice per non ostacolare questi elementi, e per porre in evidenza la base del percorso esistenziale di Jean, colonna portante dell’opera e aspetto di più delicata trattazione. Probabilmente non si è neppure sentito il bisogno di porre inutili interferenze alle emozioni dello spettatore, saldamente catturare dall’antico matrimonio tra musica e spiritualità.

9Venendo finalmente a parlare del film, che è il motivo per cui dovremmo essere qui, riconosceremo immediatamente come Hooper, che insiste nella conformazione cattolica dell’opera in due modi, visivo e fenomenico, abbia capito che l’ingrediente vincente del musical è l’aver saputo trasmettere a un pubblico immenso, in modo persuasivo, i passi più struggenti e forti del romanzo francese. Ha così ribattuto fiducioso la china indicata da Boublil: con un approccio sul lungo percorso che definiamo “visivo”, Hooper ha arricchito le performance musicali – anche per una questione estetica – con una cascata di dettagli religiosi (ovvero ambienti chiesastici, crocifissi, immagini sacre, rosari, vetrate, candele e via dicendo). L’altro tipo di approccio, assai più clamoroso, è quello che ho definito “fenomenico”: ovvero una precisa scelta registica, posta nell’acme del narrato, che si dissocia dal musical riagganciandosi al “problema” che avevo tratteggiato a proposito del letto di morte di Valjean. Hooper risolve quell’ambiguità scegliendo di far comparire, per accompagnare il trapassato in Paradiso, Fantine (come nel musical) ma anche, sostituendo Eponine, proprio il vescovo Bienvenu, il quale si inserisce nel canto come terza voce proprio allo scadere della frase: “E rammenta, la verità che una volta fu detta, amare un’altra persona è vedere il volto di Dio”. La scelta di Hooper è felicissima, sia per il significato religioso che conferisce all’intera opera in senso ampio, sia per la precisione filologica dimostrata nel comprendere e riproporre il messaggio ultimo del romanzo, dove “l’amore” di cui si parla è infatti quello tra ogni essere umano. (Insomma… in poche parole la fraternité torna a farsi cristiana).

Il film di Hooper è meritevole per moltissimi altri aspetti, come esposto accanto alle criticità, in molte recensioni professionali cui – essendomi dilungato troppo – vi rimando. Io l’ho trovata un’opera grandiosa, ove il materiale di alta qualità offerto in partenza è stato ben coronato, dandogli l’azione e un respiro lirico – monumentale, che il palcoscenico era costretto a contenere.

In conclusione si tratta di un grande film per una grande storia, una trasposizione di cui si sentiva veramente il bisogno nonostante si fosse giunti ben oltre qualche decina di versioni cinematografiche. Un’impresa che attraverso il percorso fino a qui seguito ci ha consegnato un film magnifico, epico e, quel che a noi interessa… cattolico. Tutti aspetti che secondo me, nel centocinquantesimo anniversario della sua fatica, lo dico per fare a Hooper il complimento massimo, il grande Victor Hugo avrà certamente apprezzato.

(1) Tutte le citazioni dirette dal romanzo saranno – purtroppo – prive di riferimenti precisi: è decisamente uno degli inconvenienti di leggere su Kindle.

(2) M. Vargas Llosa, La tentazione dell’impossibile, Victor Hugo e «I Miserabili», Milano, 2011, pp. 81-82.

(3) Potrebbe non essere necessario, ma per sicurezza specifichiamo  che nonostante la prospettiva di chi giudica i fatti, non si ritiene affatto che l’anticlericalismo di Hugo sia in toto sordo e spregiudicato. Alcuni suoi spunti – va da sé, i più assennati – sono anzi ancora attuali.



TO THE WONDER
7 luglio 2013, 10:31 am
Filed under: Cattolici, Film

(To the Wonder)

USA, 2012, di Terrence Malick, con Rachel McAdams, Ben Affleck, Olga Kurylenko, Javier Bardem …

To The Wonder (2)Iniziare la recensione di un’opera di Malick è, per me, un’impresa faticosa. I suoi film sono complessi, sfaccettati all’inverosimile e, soprattutto, spalancati alla percezione più intima dello spettatore… e dunque, abbastanza ostici da restituire degnamente a parole (e ancor peggio in un giudizio). È utile, anche per aiutarsi a svolgere un discorso organico, istituire un confronto con la penultima pellicola del regista, il suo capolavoro The Tree of Life. In quel film il lutto diveniva il pretesto per tracciare la mappa esistenziale di una famiglia texana degli anni ’50, svolgendo la psicologia del protagonista attraverso la ricostruzione della sua infanzia e del suo rapporto col padre e la madre. Su questo si costruiva una trasposizione cosmica della peripezia terrena, indagando con asprezza e dolcezza assieme la realtà della signoria divina tanto sul creato, quanto sulla vita di ciascun essere umano. In un crescendo enigmatico – ma di impostazione cristiana – si arrivava a chiudere il cerchio sull’immenso discorso attraverso la rappresentazione di una sorta di “fine ultima”.

wonder 2To the wonder, mantenendo il costante dialogo con Dio e sbilanciandosi di più nella descrizione religiosa esteriore dei contesti psicologici, traccia un discorso più contenuto, non escatologico, e tuttavia egualmente universale. La stessa ricerca è calata in una circostanza ancora più vicina a noi, alle inquietudini dei nostri giorni. Là dove c’era una situazione famigliare, un ordine – anche nella conflittualità – sicuro con cui confrontarsi, qui il singolo lotta per affermare un primo appoggio fuori da sé stesso, tra circostanze che complicano sensibilmente questo cammino.

wonder 3Tessere di questi arazzi sulla natura dell’essere umano e sulla sua spiritualità, è da sempre il fulcro della poetica di Malick. Qui, tutto ruota intorno al dissidio romantico di due giovani adulti, la Parigina Marina, divorziata e con una figlia preadolescente, e Neil, americano. I due, all’inizio della storia, si stanno amando in Francia, intensamente; lui non vuole sposarsi ma conduce la donna e la ragazzina con sé a casa propria, oltreoceano. Segue una lunga serie di raffreddamenti, allontanamenti, di desideri accolti e ignorati, di tenerezze languide, affetti ed erotismi delicati, grondanti d’umanità. Neil è incapace di decidere per qualcosa che possa dare certezze a Marina e soprattutto alla ragazzina, così le due sono costrette a tornare in patria. La coppia si ricongiungerà più tardi, proseguendo un  percorso fatto di nuove gioie e tormenti. Parallelamente a questi sofferti rivolgimenti sentimentali, un terzo personaggio, Padre Quintana, affronta i doveri del suo ministero dialogando a tu per tu con Dio, chiedendogli conto della sua assenza, supplicando il suo aiuto per superare il buio della fede.

wonder 5Malick non racconta una storia: sfuma delle interiorità, dei pensieri in cui ognuno legge qualcosa di sé stesso e della propria storia. Costruisce dei frammenti visivi che realmente ci sanno restituire quell’emozione, quel sentimento che ci è capitato di provare, quella frase che ci ha attraversato la mente. Come tipico, i dialoghi sono allo stretto indispensabile, alludono più che spiegare. Le liti e le riappacificazioni sono offerti come dati di fatto, non occorre elencarne le ragioni. Le immagini sono sia narrative che metaforiche e, talvolta, puramente simboliche; non sempre è facile, ammesso che sia necessario, distinguere un concetto visivo da una concreta azione dei personaggi. Se questi meccanismi erano congeniali al progetto quasi utopistico di The Tree of Life, qui aprono alcune brecce in un mistero più contenuto e di intimo ermetismo: la relazione d’amore tra un uomo e una donna. Il dolore, la tribolazione che da questo amore nasce inevitabile, sono posti, assieme ai dubbi e alla colpa, al cospetto Dio.

wonder 6Il risultato è, come sempre, un’esperienza; un viaggio verso la scoperta dell’essere umano. Un viaggio impegnativo – che per molti sarà, va da sé, indigesto – in cui colpisce la costruzione della labirintica conflittualità umana attraverso la semplicità di immagini quotidiane, puntiformi. Lo sguardo è saziato da questa bellezza che, sempre, accompagna l’uomo, ed esiste in un tramonto come nella linea spezzata dei tetti di un anonimo sobborgo. Esiste in una pozzanghera palustre che riflette il cielo, e in un’orchidea. Sul piano tecnico il film garantisce superbamente questa lettura, attraverso la fotografia al solito magnifica, e quella serie di controllatissime pennellate che è, in Malick, l’arte del montaggio.

La recensione potrebbe anche chiudersi qui, con un caloroso invito ad incontrare questo film, ma La Luce in sala ha una missio ben specifica, e qualche cosa in più occorre dirla.

Ai tempi di The Tree of Life mi sbilanciai – forse un po’ troppo – nel credere (come se fosse stato davvero importante) che Malick fosse cattolico, e ne seguì una discussione tra i commenti con toni anche abbastanza risentiti.

wonder 4Oggi come allora non posso essere certo di cosa Malick stia cullando nella propria inarrivabile mente di poeta, ma chi guarderà questo film interessandosi specificamente ai messaggi confessionali, come già detto, più espliciti e frequenti rispetto al precedente lavoro del regista texano, (una ricerca che in un’opera d’arte come questa ha un retrogusto naif), vi troverà al centro il cattolicesimo. Difficile non pensare, in continuità col cinema precedente, che non vi sia molto di autobiografico, qui. Nel film s’incontra un cattolicesimo che brilla di sincerità, di un’onestà tale da tramutarsi in inquietudine. Non voglio esplicare ogni dubbio, ogni immagine carica di queste tensioni, di questi confronti appena accennati. Non sarebbe giusto, perché raccontare una suggestione o un sottinteso labilissimo, significa annacquare il delicato flusso di coscienza che questo film rappresenta.

Non mancano, dal punto di vista dell’ortodossia, alcune perplessità, la parvenza poco pacifica di alcune scelte. Malick tocca volutamente delle questioni aperte, sui cui la riflessione è ancora accesa. Ma se qui si offre l’immagine di una religione languente, che brilla del suo afflato spirituale ma si lascia opacizzare nel suo “senso formale”, nulla vuole smentirne la verità, non il dolore, il dubbio, né la tensione tra precetto e desiderio. Per questo classifichiamo il film come cattolico: non c’è polemica, non c’è neppure, mi pare, vera critica, ma una ricerca malinconica e speranzosa di Cristo. Risolta in una preghiera di lacerante verità.

Proprio questa preghiera getterà forse un po’ di luce sulla produzione precedente del regista, indirizzandone un’interpretazione meno soggettiva e arbitraria. I film di Malick potranno anche prestarsi a letture plurali, ma la personalità artistica del regista, coerente nei suoi alfabeti, nel trattare l’etereo, non sembra voler mirare all’imprecisione. Ai tempi The Tree of Life, un film che nel suo mistero pareva comunque coinvolgere una sfera abbastanza netta di significati, si è letto veramente di tutto.

Verso la meraviglia… the wonder, nel titolo. Neil e Marina, all’inizio della loro storia, sono presso la “Meraviglia d’Occidente”, ovvero Mont Saint Michel (“Merveille” è anche il nome dato ad alcuni spazi del livello più alto del monastero, tra cui proprio il Chiostro della Meraviglia, dove sono girate alcune scene). Un luogo da cartolina, da fuga romantica, ma un luogo che è anche – e scommetterei sia stato scelto esattamente per questa bivalenza – una roccaforte di Grazia. Un’isola che è una chiesa. La vita con la sua concretezza, le debolezze e i difetti dei due protagonisti, uccidono questo idillio, quest’armonia rosa (e celeste). Vi sono difficoltà, in questa frustrante e incerta vita, la fede che si fa sorda, l’amarezza della sconfitta. Eppure questa vita, per essere tale, tende spontaneamente alla Meraviglia; alla Meraviglia può sempre tendere.

wonder 1

“Mostraci come cercarti.

Siamo stati creati per vederti.”



L’ESORCISTA – VERSIONE INTEGRALE
14 giugno 2013, 5:04 PM
Filed under: Cattolici, Di ispirazione

(The Exorcist)

USA (1973) 2000, di William Friedkin, con J. Cobb, Ellen Burstyn, Max Von Sydow, Linda Blair, Jason Miller …

L'EsorcistaGeorgetown è nell’ombra, sulle villette borghesi, ordinate, l’oscurità notturna s’è unita al buio di un fenomeno inspiegabile, la tetraggine di un mistero tangibile e feroce. È il motivo per cui, nonostante l’ora tarda, davanti a casa McNeil ha frenato un taxi e ne è disceso un uomo nerovestito che da subito, con la sua stoica amarezza, sembra incarnare chissà come, la forza della consapevolezza. Quella descritta è une breve scena de L’Esorcista che, gelata in un bellissimo fermo-immagine, scelta come elegante sintesi del film da porre in locandine e copertine varie, ne è divenuta il simbolo. Una forte consapevolezza dicevo – una consapevolezza squisitamente cattolica – che, raschiate via le rutilanti imprese demoniache e le immagini schockanti, emerge con forza eccezionale dall’intero narrato cinematografico.

Temo che nulla di nuovo si possa aggiungere a quanto detto negli anni su questo luminoso capitolo della storia del cinema: dopo la concitazione dei suoi primi giorni il film s’è mantenuto freschissimo nelle chiacchiere degli adolescenti fino ad oggi, grazie all’aura di film maledetto/perverso/proibito (l’aneddotica è sterminata); una riedizione in versione integrale che ne ha stimolato un tardivo prequel e svariate parodie; il ruolo di pietra miliare, nei discorsi più dotti, e di termine di paragone ineludibile per gran parte della produzione orrorifica posteriore. Ovvieremo a questo impasse provando a puntare su ciò che ci interessa più da vicino, ovvero la componente religiosa del film. So che a qualcuno suonerà strano, ma oltreoceano questo lungometraggio viene definito addirittura “one of the most pro-Christian/Catholic films ever made”.La religiosità del film ha da sempre sofferto dell’irruenza visiva scelta da Friedkin, questo perché, stando alla mia esperienza, si è spesso incontrata una comprensibile ma superficiale reazione di scandalo suscitata dall’istintiva protezione dei fedeli per i propri simboli più sacri i quali, come viene inevitabilmente ad eternarsi su celluloide, sono brutalmente attaccati nell’enfasi tragica della storia. A ciò va aggiunto un senso di imbarazzo, coincidente, per altri, con la presa di distanza da situazioni giudicate dannose alla causa del “cattolicesimo moderno”, un cattolicesimo che (in barba a quanto ancora Papa Francesco ripete a giorni alterni) avrebbe conosciuto la cosiddetta “morte di Satana”, la sua definitiva investitura a pura metafora e simbolo di vari concetti negativi. Questi ultimi spettatori smaliziati vanno così ad ingrossare le fila di chi sceglie una lettura integralmente laica o razionalista, bollando il lungometraggio come opera di pura fantasia, e chiosando infine col truismo: “è solo un film”. Questa, dicevo, è la mia limitata esperienza, calata nella prospettiva microscopica di uno spettatore tra gli spettatori (nella quale, sono certo, molti potranno ritrovarsi), ma una valutazione sull’impatto religioso ad un livello più significativo è offerta dal regista stesso, che così si esprime:

“Il film è stato sostenuto e lodato ai più alti livelli della Chiesa cattolica. Ad aver avuto problemi col film sono state persone provenienti da altri gruppi religiosi o con nessuna religione in particolare. Molti dei loro problemi, credo, sono nati da una mancanza di comprensione del rito romano e del cattolicesimo in sé, per la quale nutro il più profondo rispetto. Ma ben pochi studiosi cattolici ebbero dei malumori sul film*”.

Karras Dyer

Padre O’Malley, che nel film interpreta Padre Dyer, illustra a Jason Miller la gestualità corretta per dire Messa. (Da Catholics in the movies, p. 217 – Courtesy of the Academy of Motion Pictures Arts and Science.)

Il teologo gesuita Padre Thomas Bemingham, il religioso coinvolto come consulente alla realizzazione del film (e che Blatty ringrazia in fondo alla sua fatica letteraria di ispirazione alla pellicola, “per avermi suggerito il tema di questo romanzo”, e che interpreta, fra l’altro, il rettore dell’università nel film), intervistato da Radio Vaticana il 2 febbraio 1975 ha affermato che L’Esorcista non è il solito film dell’orrore ma qualcosa di molto diverso; un’opera che, mettendo a parte le esagerazioni cinematografiche, affronta di petto, e seriamente, il problema del male. É benevolo anche Padre Gabriele Amorth, che qualche anno fa (ovvero – me lo permetto col gran rispetto che gli porto – quando appariva più equilibrato) così diceva:

[…] sono anche grato al film l’Esorcista che, pur volendo dare spettacolo, con scene irreali, è un film che sostanzialmente è esatto. Ha avuto un impatto mondiale, con un pubblico vastissimo, ha rimesso nelle orecchie delle persone l’esistenza di questo strano essere che si chiama Esorcista, di cui si erano perse le tracce. Ha divulgato il personaggio dell’esorcista. […] (M. Tosatti – G. Amorth, Inchiesta sul demonio, Piemme, 2003, p.59).

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Il film mi pare che si spinga molto oltre, e magistralmente (senza retorica o sciatti trionfalismi) rivela un’attenzione quasi filologica nella trasposizione in immagini del rituale; mostra il profondo realismo, la razionalità dell’esorcista che interviene (e così deve essere), solo allorquando la scienza risulta impotente (quando si possono escludere cioè tutte le patologie psichiche note); allude al nesso cruciale tra spiritismo e possessione; mostra l’esistenza personale, concreta e attiva del demonio (non, come d’uso, un attraente tenebroso figuro tanto cattivo quanto affascinante, ma entità animalesca di grottesca volgarità); infine soprattutto, la realtà salvifica dell’operato sacerdotale che è, tra l’altro, il cardine dell’intera vicenda (il titolo è “L’Esorcista”, non “Il demonio”).

Naturalmente è bene precisare anche dell’altro: si tratta di un film dell’orrore, né apologetico né catechetico in prima battuta, e ci tengo a completare il quadro delle opinioni autorevoli facendo presente quanto espresso dallo stimabile esorcista Don Gino Oliosi (autore dell’ottimo Il demonio come essere personale – Fede & Cultura) il quale, in occasione di un appuntamento entro la rassegna Cafè Teologico di Desenzano, privilegia un giudizio di impronta pastorale che dà peso all’irrealtà del film:

Le possessioni, che oltretutto sono rare, le vessazioni, le ossessioni, le negatività, sono i modi diversi con cui si verifica empiricamente la sua azione [del demonio], sono la punta di un immenso iceberg. Purtroppo queste sono quelle che fanno notizia. Sapeste quanto male ha fatto nella televisione L’Esorcista, non so se voi l’avete visto, quanta gente debole psichicamente ancora oggi è influenzata da quello. Che poi, com’è il linguaggio cinematografico, ha deformato completamente l’esorcismo come preghiera, e quindi ha creato il terrore. E io non vorrei che identificaste l’azione del demonio con quello che vi ho descritto [si riferisce alla testimonianza diretta del suo ufficio d’esorcista, offerta appena prima]*.

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Ho mantenuto l’aspetto colloquiale del messaggio, trasmesso oralmente. Don Oliosi intende dire, potendo valutare con completezza l’intero suo discorso, che l’azione ordinaria del demonio, infinitamente più imponente sebbene meno sensazionale, è in proporzione molto più dannosa per l’anima umana della possessione (anche per la sua minor evidenza). Il sensazionalismo eccitato da film come L’Esorcista, e ancora più la fantasiosità in esso contenuta, oscura questa verità che dovremmo considerare quotidianamente, legando altresì la natura della preghiera, e soprattutto l’azione della Grazia da essa promanante, a un annichilente senso di paura o ad immagini pittoresche e banalizzate. Verissimo, e l’ho rimarcato perché ne sono assolutamente convinto; tuttavia se si colloca lucidamente il “chiasso” proprio dell’opera filmica nel posto che gli spetta, ovvero tra gli effetti legati a un’opera artistica che solo dopo aver spaventato, vuole dire qualcosa di estremamente serio, porrei senza la minima esitazione L’Esorcista tra i film fieramente cattolici. Questo non significa che una bestemmia cessi di essere una bestemmia o che ci si debba rallegrare di vedere una statua della Vergine brutalizzata indecentemente (per non dire altro), ma credo che questi scempi possano essere tollerati in vista del messaggio e della catarsi finale, i quali ne traggono proporzionale vigore, spessore e autenticità.

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Aggiungerei che la blasfemia è un ingrediente inevitabile legato a queste realtà drammatiche, e non dovrebbe essere intesa come una tara particolare del film. Chi leggesse il romanzo da cui si è trasposto fedelmente il film (il vero punto di forza dello stesso, anche secondo il parere di Friedkin), scoprirebbe che la crudezza relativa a questa blasfemia è infinitamente più abbondante ed accanita, costituita di immagini orripilanti e valanghe di dati – con tutta probabilità non inventati (si parla ad esempio, è l’unico dato che mi è capitato casualmente di incrociare con studi storici specifici, dell’episodio di Loudun) – relativi alle più sacrileghe pratiche sataniste, perversioni, deformazioni mentali. Una mole di informazioni anche scientifiche (sulle varie patologie mentali o abilità psichiche) che non bastano forse a definire il romanzo come “documentato” – non era comunque nelle intenzione dell’autore – ma testimoniano l’intenso lavoro di ricerca propedeutico alla stesura dello stesso. Nonostante il risultato di questa minuzia gravi pesantemente sulla sensibilità del lettore cattolico (anche con picchi traumatici!), essa nulla toglie alla verità ultima della vicenda che anzi, ne è irrobustita profondamente, sostenuta dal pilastro di una lucidità trasparente, concreta e credibile perché poggiante sulla solida base del disincanto e dello scrupolo. Non è da temersi insomma il confronto frontale con un realtà disgustosa e scomodissima pur di avvicinare la Verità. Una verità ultima coronata fra l’altro da una manciata di pagine di raffinata meditazione cattolica e di alto valore formativo, preludio alla conclusione della storia che, come saprete, è lieta solo parzialmente: un finale agrodolce che diviene l’apice delle esagerazioni denunciate da Oliosi, ma che nel linguaggio drammatico e romanzesco intendeva, mi pare, sconfiggere il fortissimo demone Pazuzu attraverso il sacrificio più grande ed eroico che Padre Karras, come uomo e sacerdote, potesse compiere.

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La prova del nove dell’ortodossia e preziosità di questo terribile film si recupera tra le righe di quanto osservato da Colin Mc Dannell nel bel libro Catholics in the movies (p. 218), a proposito della prezzolata critica di testate tutt’altro che papiste:

 I critici più prestigiosi [nonostante il pubblico accorresse in massa] non furono impressionati. Vincent Camby del New York Times e Pauline Kael del Newyorker accusarono l’Esorcista di utilizzare la religione come pretesto per far soldi tramite il sensazionalismo e il sesso. Entrambi detestarono l’Esorcista con veemenza non più evocata per alcun titolo religioso fino a The Passion of the Christ di Mel Gibson.

 Tralasciamo pure gli estratti dalle critiche di questi eroici paladini.

Penso che L’Esorcista sia un grande, grandissimo film. Penso che ancora oggi dischiuda la percezione dello spettatore su un problema che ognuno può esorcizzare come crede (bubbole, lacune scientifiche, allegoria dell’errore umano, roba da antropologi, nonmipongoilproblemamifasoloridere…), ma oggettivo e reale. Blatty, da scrittore cattolico, e Friedkin da regista ebreo agnostico di grande realismo (convinto, un po’ funambolicamente nel suo agnosticismo, della realtà dell’esorcismo), consegnano alla Chiesa Cattolica un atto di fiducia, ovvero il possesso della chiave per sconfiggere il Male. Per chi crede, ciò è reale assai in anticipo rispetto ai confini di un singolo rito amministrato occasionalmente; per chi non crede questo film è un buon racconto di paura… in cui la Chiesa Cattolica ha comunque saldamente in mano le redini della situazione (e le tira mirabilmente).

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Concedendomi una parentesi personale devo confessare, non senza tentennamenti, che a me questo film ha fatto molto bene (o molto male, a seconda dei punti di vista), nel momento in cui mi è capitato di vederlo (prima liceo – dunque extended cut). Mi ha terrorizzato e mi ha spinto a conoscere, a ragionare su questo mistero. Penso abbia persino avuto una certa colpa nella mia definitiva – e ormai temo irrevocabile – accettazione della religione cattolica. Chiaramente sorrido sotto ai baffi dicendolo… eppure il ricordo di quello sgomento, l’aver aperto gli occhi all’improvviso su questioni che ignoravo bellamente e che chiedevano urgentemente di essere smentite o per lo meno proporzionate, mi appare oggi determinante. Da quel momento (probabilmente sarebbe successo poco dopo con un altro pretesto… o forse no?) ho iniziato a conoscere davvero la mia religione, recuperarla intellettualmente, porla in guerra con me stesso sapendola sensata. È solo una testimonianza, una reazione fra molte altre che però, piaccia o meno… c’è stata. E se davvero il barbiere di James Cagney, dopo aver visto questo film, ha appeso il rasoio al chiodo dopo 35 anni e s’è fatto prete*, non mi pare nemmeno la più scomposta. Gli effetti di questo film (oltre agli omicidi, gli infarti, i casi di suggestione esagerata) possono essere anche questi! Resta assolutamente sconsigliato ai minori di X anni; fate benissimo a sconvolgervi per le scene più trucide e a biasimarlo perché è scurrile ed eccessivo, ad evitarlo se siete delle anime delicate… ma riconoscetegli questo robusto e prezioso fragore religioso.

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Com’è noto, l’extended cut è sempre da preferire. Essa è forse ancor più spaventosa, ma reintroduce il dialogo tra Padre Karras e Padre Merrin che segue un tentativo fallimentare di esorcismo. Con gran dispiacere di Blatty la scena venne tagliata nella versione del ’73 per volontà del regista, che riteneva penalizzasse l’escalation finale del ritmo narrativo; eppure si tratta, secondo le parole di Blatty, di

“un’esplicita articolazione del tema che dà al film chiarezza e concreto peso morale; chiarezza perché focalizza la storia di Karras e del suo problema di fede; e concreto peso morale perché colloca gli elementi osceni e repellenti del film nel contesto del primario attacco del demonio su chiunque, vale a dire la tentazione alla disperazione”. (W. P. Blatty, The Exorcist: From Novel to Film, New York Bantam, 1974,  pp. 35, 275-81).

Chiudo lasciandovi le parole di questo dialogo, riprese dal romanzo (W. P. Blatty, L’Esorcista, Torino, 2002, p. 303), non solo per il contenuto (che la concisione del momento narrativo costringe in una riflessione assai tronca), ma per porre l’accento sulla più autentica natura di questa brutta storia, di questo “brutto” film, talvolta – forse anche a suo vantaggio e del messaggio che veicola – frainteso.

“Comunque, io ritengo che il bersaglio del demone non sia la persona ossessa… Damien, il bersaglio siamo noi… gli osservatori… nel caso attuale, ogni persona che si trova in questa casa. E credo… credo che lo scopo sia quello di condurci alla disperazione…, di farci respingere la nostra condizione di persone umane, di farci apparire di fronte a noi stessi come esseri fondamentalmente bestiali, niente altro che bruti. Esseri fondamentalmente abbietti e corrotti, spregevoli, vili, indegni. Perché, a mio avviso, la fede in Dio non è affatto una questione di raziocinio. Io credo che sia unicamente una questione di amore e che presupponga, da parte nostra, l’ammissione della possibilità che Dio ci ritenga degni del Suo amore”.



LETTERS TO GOD
6 marzo 2012, 6:23 PM
Filed under: Cristiani, Film

Sono contento di dare spazio alla seconda recensione proposta da una lettrice (che ringrazio calorosamente): Emilia Flocchini. Il film che vi propone è firmato Sherwood Pictures, una casa di produzione protestante cui si devono successi come Facing the Giants, Fireproof e il recente Courageous.

(Letters to God)

USA 2010, di David Nixon, con Robyn Lively, Jeffrey S. S. Johnson, Tanner Maguire…

A volte può capitare, dando un’occhiata all’elenco dei film in televisione, di essere incuriositi da un titolo o da una trama. A chi scrive è capitato qualcosa di simile domenica 11 settembre 2011, leggendo che su Raitre, alle 16:40, sarebbe andato in onda il film drammatico Letters to God. La trama riportata su Televideo lo rendeva interessante per i lettori di questo blog, per cui, dopo averlo visto, ho chiesto il permesso a Filippo di poterne parlare.

Il protagonista è Tyler Doherty (Tanner Maguire), un bambino di otto anni appassionato di calcio come tanti suoi coetanei, che ha dovuto abbandonare la squadra di cui faceva parte a causa dell’insorgere di un medulloblastoma al cervello. Amorevolmente seguito dalla mamma Madeline, detta Maddy (Robyn Lively), dalla nonna (Maree Cheatham) e, a modo suo, dal fratello adolescente Ben (Michael Christopher Bolten), trascorre il suo tempo scrivendo lettere ad un amico di penna veramente singolare: Dio in persona. Ogni giorno lascia le sue missive nella cassetta delle lettere di casa sua, sperando che il postino le ritiri quando ne deposita altre in arrivo. A causa di un periodo di ferie, il portalettere che abitualmente passa da lui viene sostituito da Brady McDaniels (Jeffrey S. S. Johnson), provato dalla vita e segnato dall’alcolismo, che gradualmente inizia a fare amicizia con il piccolo ammalato e con la sua famiglia. Inizialmente, quando si ritrova in mano le lettere a Dio, l’uomo non sa che farsene, tanto che il barista del locale dove abitualmente va a bere lo schernisce: «Dovresti portartele a Messa la domenica!». Effettivamente, subito dopo essere uscito da lì entra in una chiesa, dove un ministro sacro, il reverendo Andy, gli suggerisce che Dio ha fatto sì che finissero fra le sue mani per un motivo preciso.

Anche Tyler ha una figura che lo aiuta a capire la volontà divina su di lui: il signor Cornelius Perryfield (Ralph White), nonno di Samantha, la sua migliore amica (Bailee Madison). Mediante un buffo travestimento, l’anziano rivela a lui che il Padreterno l’ha scelto per una missione speciale, come suo “guerriero”, mentre la nipotina è chiamata a diventare “pacificatrice”, dato che, a scuola, ha litigato con un compagno che aveva preso in giro il bambino per via della sua testa, calva a causa della chemioterapia. In famiglia la situazione non è facile: la mamma cerca di tener duro, la nonna si esprime prevalentemente con citazioni bibliche, mentre Ben inizia ad essere insofferente nei confronti del fratellino. Anche Brady, intanto, ha i suoi problemi, ai quali si aggiungono quelli della famiglia Doherty, con la quale diviene sempre più coinvolto. Proprio nel bel mezzo della crisi, però, il postino rinviene alcune delle lettere, nelle quali Tyler prega Dio affinché faccia qualcosa per i suoi cari. Finalmente compreso il perché dell’arrivo di esse fra le sue mani, le consegna alle persone delle quali si parla, scatenando in tutta la comunità un vero e proprio contagio di speranza.

Dopo questa sinossi, vale la pena di spendere qualche parola sul progetto in sé. L’impianto tecnico, pur trattandosi di una produzione a budget ridotto, è di ottima qualità, come dimostrano gli abili stacchi di regia e la fotografia curata. La colonna sonora, inoltre, gioca un ruolo fondamentale, commentando i momenti di fede con sonorità dolci e quelli di crisi con buoni pezzi di stile rock. La delicata materia è trattata senza indulgere a patetismi, anzi, vengono presentati anche momenti che strappano qualche risata, come il ritorno a scuola di Tyler o la festa in maschera organizzata per la fine della sua chemioterapia.

Stando a quanto ho visto, i personaggi non sono sicuramente cattolici. Ciò nonostante, la fede che il protagonista dimostra può avere elementi in comune con quella della Venerabile Antonietta Meo, meglio nota ai suoi devoti come “Nennolina”: anche lei, infatti, colpita da un tumore osseo che le costò la gamba sinistra e poi deceduta, scrisse letterine a Dio, alla Madonna, a Gesù e perfino allo Spirito Santo, che hanno ricevuto l’apprezzamento di svariati teologi, benché ad averle scritte fosse una bambina di sei anni e mezzo.

Per concludere, vale la pena di segnalare che, come nel caso di Voglio essere profumo, con cui condivide la data d’uscita nelle sale, 9 aprile 2010, la storia raccontata è ispirata ad eventi realmente accaduti (il vero Tyler, infatti, è morto nel 2005) ed ha lo scopo di mostrare come un incontro con qualcuno che vive intensamente e serenamente la propria fede possa cambiare la vita di chi entra in contatto con lui o lei.



LE DUE SUORE
24 dicembre 2011, 5:38 PM
Filed under: Di ispirazione, Film

(Come To The Stable)

USA 1949, di Henry Koster, con Loretta Young, Celeste Holm, Hugh Marlowe, Elsa Lanchester, Thomas Gomez, Dorothy Patrick, Basil Ruysdael, Dooley Wilson, Regis Toomey, Mike Mazurki …

Le due suore qualche decennio fa era considerato un bel classico di Natale. Come tanti altri vecchi film di impronta cattolica (attualmente “famosi” solo sulla carta) riscosse un notevole successo di pubblico e di critica (ben sette nomination agli Oscar – nominato miglior film ai Golden Globe) è finito inesorabilmente nel dimenticatoio e, ignorato dalla distribuzione, è diventato praticamente irreperibile. Non che questa scelta sia del tutto incomprensibile, il film è decisamente datato nel modo di intrattenere lo spettatore: tutto ha il sapore incantato di una favola, l’umorismo è piacevole ma fin troppo garbato, le avversità delle vita sono edulcorate… Si tratta insomma dei meccanismi propri di queste tragicommedie e dunque, come da copione,  non poteva mancare neppure una parentesi musicale al pianoforte!

Siamo nell’innevata Bethlehem, vicino a New York, due suore giunte dalla Francia, Suor Scolastica e Suor Margherita, stanno camminando nella neve. Sostano presso la casa di una pittrice di immagini sacre nella quale si sta rappresentando una natività vivente, in modo che la donna la possa ritrarre. Le due, accolte dalla donna, confidano di avere una missione precisa: in adempimento di un voto fatto a Dio (che salvò i bambini del loro ospedale in Normandia dai bombardamenti tedeschi), le due sono fermamente intenzionate a costruire un nuovo ospedale in America.

Si recano ovviamente dal vescovo il quale, pur apprezzando lo zelo e il candore di fede delle due sostiene di non poterle aiutare economicamente in quella che, effettivamente, appare come una follia. Suor Margherita e Suor Scolastica non si perdono d’animo e armate di fede e determinazione intraprendono un cammino irto di difficoltà verso la realizzazione del loro piano, coinvolgendo, di volta in volta, vari personaggi che gravitano intorno alla cittadina. Ce la faranno? Chissà… tenete conto che siamo pur sempre in un film natalizio e che, insomma, potremmo definirlo niente di più che una bella favoletta romantica… Ma è proprio così?

Leggo su “Life” dell’ 8 agosto 1949 (p. 49) che la scrittrice del film, Clare Boothe Luce, fu stimolata a concepire questo soggetto dopo essere stata colpita delle vicende del Regina Laudis Priory a…. Bethelhem! La Reverenda Madre Benedict Duss giunse nella cittadina di Bethelhem dalla Francia del secondo dopoguerra su invito di una nota pittrice di soggetti religiosi, Miss Lauren Ford. Suor Benedict era accompagnata da Suor Mary Aline Trilles, e le due possedevano in tutto soltanto 20 $… oltre alla grande forza lavorativa e alla fede coriacea, certo. Ospitate dalla pittrice già dopo poco ottennero in dono il terreno necessario da un vicino di fede congregazionalista, l’industriale Robert Leather. Questi possedeva una collina coperta di pini che desiderava mantenere integra perpetuamente… e sapeva che le suore ne avrebbero avuto cura come un luogo sacro.  Si iniziò così la costruzione del loro monastero, che esiste ancora oggi (non un ospedale, la natura contemplativa dell’ordine è stata modificata per andare incontro alla sensibilità del pubblico americano). Un film davvero cattolico, per ambientazione e ispirazione, che offre diversi momenti (se si guarda oltre al sentimentalismo) di vera spiritualità. Una scena fra tutte: le due sorelle pregano San Giuda, il santo delle cause perse, inginocchiate in cima alla collina. Se cercate un film che abbia l’atmosfera giusta per una serata precedente il giorno di Natale… Le due suore fa proprio per voi.



LA CONVERSA DI BELFORT
18 ottobre 2011, 2:38 PM
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(Les anges du péché)

Fr. 1943, di Robert Bresson, con Marie Helene Daste’, Renee Faure, Jany Holt, Sylvia Monfort…

Esiste un luogo o un circuito di anime che possa dirsi completamente impermeabile al male? Sarebbe forse troppo ingenuo anche il solo pensarlo, ed ecco perché quando esso penetra, in quest’opera prima di Bresson nel convento di Belfort, potremmo essere dispiaciuti della sua azione sottile e invasiva ma, a ben vedere, non poi così sgomenti.

Annamaria, una ricca giovinetta tanto fiduciosa nella propria vocazione da contaminare l’ardore con l’arroganza, entra in convento. Un rifugio particolare, sconsigliabile in realtà alle novizie del suo lignaggio: in esso vi si accolgono e recuperano ex detenute pentite e rinnovate nella fede. Annamaria è, pur con le difficoltà che le porta un temperamento orgoglioso, seriamente fissata nel desiderio di migliorare e apprendere… ma è tuttavia con un eccesso di amor proprio che insiste, e ottiene, di dedicarsi anima e corpo alla conversione e all’assistenza della meno recuperabile fra le delinquenti: Teresa. Quest’ultima, sorda alla benché minima influenza spirituale durante la detenzione, una volta uscita di prigione compirà un atto vendicativo e, ricordandosi con mente utilitaristica dell’invito a entrare in convento, vi si recherà trovando nella clausura la migliore fra le coperture. Qui, stuzzicata dall’acceso interessamento di Suor Annamaria risponderà all’amore con l’odio.

No, l’opera di Bresson non è, come potrebbe far pensare questa premessa, una stucchevole filastrocca su come la vita di preghiera possa cambiare radicalmente un’anima disinteressata al bene. La questione è ben più complessa, e l’indagine cinematografica si rivela impagabile nella ricerca di spessore e chiarezza tanto sul piano spirituale che su quello non meno importante della psicologia. Le due anime imperfette, quella di Suor Annamaria e Suor Teresa, descrivono percorsi inversi che congiungendosi portano allo scontro drammatico. Se come osservavo nell’incipit il male entra realmente ovunque ed affonda robuste radici nonostante il terreno gli sia nemico…  possiamo altrettanto constatare come nessuno, specularmente, sia al riparo dalla Grazia. Non vi è in questa parabola il tocco favolistico del bene che vince sul male… ma proprio quello della Grazia che non vince, che si lascia piuttosto vincere e, perdendo tutto, …vince. È un insegnamento che i cristiani conoscono bene.

Di secondaria ma concreta importanza notiamo l’interesse nello scoprire e rappresentare ritmi, rituali, peculiarità della vita monastica, la quale trova una trascrittura di vivissima suggestività. Complice la fotografia atmosferica, baluginante, le teorie di monache in preghiera, in processione o al lavoro assumono la bellezza misteriosa e lontana (per un pubblico generico, certo), di un microcosmo imperfetto e umano, nonostante tutto, ma sinceramente dischiuso alla meta di ogni orazione.

Sacrificata all’indagine della vita consacrata permane una componente poliziesca bastevole a conservare allo spettatore una punta di malessere e di costante attesa. Attesa che, in un narrato dai ritmi discontinui, conduce l’occhio dal primo all’ultimo fotogramma senza sforzi, mentre i dialoghi corposi ed eleganti (propri di un film d’altri tempi), incorniciano l’efficacia delle immagini con la forza delle parole. Il minimalismo spiccato proprio del fare bressoniano si coniuga ad una mancanza ammutolente di spettacolarizzazione, tutto a vantaggio del significato. Da vedere e rivedere.