LA LUCE IN SALA


FOTOGRAMMA/PENSIERO #24: MAMMA HO PERSO L’AEREO
25 dicembre 2015, 1:54 am
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Cattura

(Mamma ho perso l’aereo, USA, 1990, Chris Columbus)

NATALE COME FESTA DEL SOSPETTO. Un Natale detestabile è il Natale senza Cristo. Miserabile è il mondo che non ha potuto rinunciare alla carta dorata che intasa i cassonetti, al glitter appiccicoso e ai cenoni da purga,  pur avendo rifiutato il movente primordiale di questa nevrosi collettiva. Ma dietro al buonismo da quattro soldi, dietro al girovagare esausti attorno a bancarelle che vendono il nulla, ai selfie autocompiaciuti davanti a teofanie laiche di luci colorate, a canzoni insensatamente allegre che parlano di campanelle e neve, c’è per ciascuno una frazione di secondo dedicata al sospetto… ossia che il Natale di una volta possa mandare un eco di senso anche a quello di oggi. Un senso virtuale, antropologico o spirituale, ma un senso. Un ricordo e forse una sfumatura nostalgica.

Un pensiero ritrito, ne sono consapevole, ma adatto a un fotogramma tutt’altro che originale: tratto cioè da un classico delle feste natalizie Mamma ho perso l’aereo. Un film irresistibile che entra prepotentemente nei salotti di tutte le case ogni anno a Natale, perché è carino, perché fa ridere e perché, diamine, sa di Natale! Girato nel 1990 non era costretto a fare le capriole per dare un senso alle cose e scaldare i cuori q.b., era sufficiente ritagliare un minuto per 1) mostrare una chiesa, 2) far sentire Oh Holy Night e 3) esprimere un paio di concetti cristiani – senza esagerare per carità – (tra cui: “In chiesa sei sempre gradito” e “Io mi sentivo triste; questo [la chiesa] è il posto giusto se sei scontento di te”).

Questa ritualità della visione di classici natalizi come questo mi riporta alla mente le straordinarie parole di Papini:

Raschiate gli affreschi dalle chiese, portate via i quadri dagli altari e dalle case e la vita di Cristo riempie i musei e le gallerie. Buttate nel fuoco messali, breviari ed eucologi e ritrovate il suo nome e le sue parole in tutti i libri delle letterature. Perfin le bestemmie sono un involontario ricordo della sua presenza.

(G. Papini, Storia di Cristo, Firenze, 1921, p. X)

Perciò possiamo rallegrarci anche della festosità  fine a sé stessa che vorrebbe giustificare da sola tutto quanto… essa porta in sé il tarlo di un meraviglioso sospetto…. e chi non resisterà e vorrà sorridere di Kevin e dei suoi trabocchetti anche quest’anno, non potrà evitare quel minuto tutto anni ’90 in cui per dire che è Natale, occorre accennare alla sua autentica bellezza.

Auguro di cuore un sereno Santo Natale a te che leggi, alla tua famiglia e a tutti i tuoi cari.



FOTOGRAMMA/PENSIERO #23: WILDE
27 giugno 2014, 11:23 am
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wilde(Wilde, UK, 1997, Brian Gilbert)

Posso credere in qualsiasi cosa purché sia incredibile. Per questo voglio morire da cattolico. Ma da cattolico non vivrei. Il cattolicesimo è una religione così romantica, ha santi e peccatori. La Chiesa Anglicana ha solo persone rispettabili che credono nella rispettabilità. Fa i vescovi non in base alla fede ma all’incredulità. È la sola Chiesa in cui gli scettici sono sull’altare, S. Tommaso il dubbioso è il principe degli apostoli. No, io non potrei morire nella Chiesa Anglicana.

Il fotogramma di questa puntata ha reso necessario il corredo d’uno spezzone di dialogo; circostanza felicissima, trattandosi di un boquet di aforismi di Oscar Wilde.

Il film di Gilbert è un’opera accurata, ragion per cui non ha potuto escludere dalla biografia del famoso esteta il suo acceso interesse per il cattolicesimo. Certo, non accompagnando fino alla tomba lo scrittore, può esimersi dallo specificare che l’asserzione “voglio morire da cattolico”, non era una frecciata contro gli anglicani – come quelle che seguono – ma un desiderio profondo che si realizzò effettivamente. Abbiamo qui un testo costruito artificialmente (e bene!), incollando e aggiustando una serie di affermazioni wildiane tarate sul contesto della scena; ma chi conosce Wilde sa bene che, da cattolico, il noto scrittore avrebbe vissuto più che volentieri. Sicuramente tuttavia, arrivato a un punto della sua vita, il nostro tergiversò sino agli ultimi istanti: ne do atto agli sceneggiatori.

È lodevole che l’unico biopic dedicato a Wilde si sia preso la briga di lasciare spazio a questi argomenti, seppur collocandoli in secondo piano. Il film offre le sue legittime – e opinabili – interpretazioni sulla parabola sessuale del protagonista*, ma richiama persino – ed era tutt’altro che necessario ai fini della narrazione – che Ross, il primo amante di Wilde, si convertì al cattolicesimo.

Questo e molti altri interessanti retroscena sono oggi definitivamente divulgati anche grazie al bel libro di Paolo Gulisano, Il ritratto di Oscar Wilde, Milano, 2009. Qui ho voluto vederne qualcuno anche nel film di Gilbert. Sono pochi e frettolosi, e non restituiscono al personaggio quella complessità cui anelerebbe l’immagine strumentale che s’è voluto sponsorizzarne… ma sono decisamente meglio di niente.

Solo se si conosce l’ottica sub-cattolica di Wilde, si possono comprendere davvero alcuni dei suoi motti più disarmanti, compreso il mio preferito:

A questo mondo vi sono solo due tragedie: una è non ottenere ciò che si vuole, l’altra è ottenerlo. Questa seconda è la peggiore, la vera tragedia.

*Giusto per sicurezza: non faccio parte del gruppo di quanti negano o minimizzano l’omosessualità di Wilde che, beninteso, è stato uno dei miei autori preferiti e di cui ho letto l’opera omnia. Sono semmai propenso a criticare alcune scelte narrative, perché io (ovvero un pinco pallino che non fu – come altri – il confidente di Wilde) le ho immaginate, nella realtà, impaginate in modo diverso.



FOTOGRAMMA/PENSIERO #22: LA GRANDE BELLEZZA
23 aprile 2014, 10:43 PM
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LA GRANDE BELLEZZA

(La grande bellezza, Italia / Francia, 2013, Paolo Sorrentino)

C’è una frase che Cronin mette in bocca al protagonista di un suo romanzo, Le chiavi del regno, che esprime un disincanto che presto o tardi visita ogni cattolico: “è strano, da ragazzo ero persuaso che tutti i preti fossero infallibilmente buoni…”. E invece, cito ancora dalla stessa pagina, sono “terribilmente umani”.

È umanamente macchiettistico il cardinal Bellucci che s’è costruito un patetico ruolo mondano di conoscitore gastronomico, relegando l’antica vocazione assieme agli imbarazzi, nella sfera del rimosso.

Jep, che lo importuna da qualche tempo con la sua crisi esistenziale senile, osa porgli un’ultima indecente domanda: “Ma è vero quello che si dice in giro? Che lei è stato un grandissimo esorcista?”. Al posto della risposta arriva, come uno schiaffo, la solenne benedizione; che vuole glissare, ma non solo. È l’atto sacerdotale strappato con un ricordo scomodo, il diversivo seccato con cui ritrarsi dalla verità che si è tentato di nascondere per vanità e paura. È un atto che vuole rispondere senza mentire; mettere a tacere per contrastare il passato e il dolore, ma nella costrizione di una responsabilità che, almeno davanti al male, torna a sopravvivere.

Una scena davvero suggestiva, tra le molte di un film che le ha volute costruire tutte col goniometro. Non c’è alcun dubbio che il regista si mantenga volutamente su un’ambiguità di maniera che gli consente di (in)esprimere tutti i giudizi (quello qui sopra è un mio pensiero sulla scena, il cardinale potrebbe tranquillamente essersi seccato e basta). Soprattutto sulla religione. Certamente ha delle critiche da fare e legittimamente le fa, ma non mi metterei in fila con quanti si sono dispiaciuti per questo.

Quella che Sorrentino dipinge è una Chiesa troppo umana per essere vera, ma lui la guarda e la giudica dalla prospettiva di Jep, del flaneur distrutto che non sa né dove sta andando né quasi da dove è partito. È in questa dinamica di ineluttabile sprofondamento che le mancanze della Chiesa divengono imputazioni: i suoi salvagenti sono gettati in cambusa. La Chiesa viene punzecchiata con cose sceme (tipo il prete che ordina lo champagne), e cose purtroppo molto serie; una sorte cui viene sottoposto anche tutto il resto: in questo Sorrentino è proprio onnicomprensivo, e dunque nichilista più che anticlericale. Per l’arte, il radical-chic, Roma (come concetto complessivo), tuttavia la delusione sembra meno cocente: a queste cose non si può rinfacciare di essere il sale della terra. A me il film è piaciuto. E sono pure contento che abbia vinto l’Oscar.



FOTOGRAMMA/PENSIERO #21: I FIORI DELLA GUERRA
13 febbraio 2014, 8:49 PM
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I FIORI DELLA GUERRA(The Flowers of War, Cina, 2011, Zhāng Yìmóu)

Il falso prete (inizialmente solo per convenienza, poi per altruismo), che “ricorda il catechismo qualche volta quando è ubriaco”, innalza una preghiera molto vera quando diventa eroe, pregando – sfumatura non scontata – per gli altri.

Occorre accontentarsi, insomma. Qualche parola in più, vista l’occasione alquanto rara di un prodotto cinese che tocchi la Chiesa, val la pena di dirla. Ammesso che di “tocco” si possa effettivamente parlare. Per me che non riesco ad essere un estimatore del cinema dell’estremo oriente, il film è infatti interessante soprattutto per l’approccio scivoloso – ben circostanziabile – a questo spinosissimo argomento: nel 1937, anno in cui si svolge la vicenda, la Chiesa era ancora libera; la sua effettiva messa in clandestinità a causa del Partito comunista si avrà con la creazione dell’Associazione patriottica cattolica cinese, vent’anni più tardi.

Stando al film e al libro da cui è tratto (che non conosco), la vicenda dovrebbe essere reale. Non entriamo nel merito del controllo esercitato dal governo sulla Repubblica popolare, ma limitiamoci a constatare il colpo di fortuna toccato ai vari narratori: una vicenda che si svolge nel contesto di una chiesa con annesso collegio, completamente priva di personale religioso (l’unico sacerdote è morto prima dell’inizio della storia e non c’è nemmeno l’ombra di una suora, un diacono o cappellano, un insegnante… il cuoco, “Gu”, è scappato prima che potessimo vederlo). C’è solo un giovanissimo factotum con peso religioso/spirituale pari a zero. Molte scene si svolgono all’interno della chiesa, un edificio architettonicamente convincente, ma buio, spoglio e desolato. E va bene che fuori infuria il massacro, ma la penombra è tale che il presbiterio è a stento riconoscibile; e se voleste vedere il tabernacolo dovreste scrutare attentamente una monolitica sagoma petrigna grigio-nera che suggerisce l’idea di un altare senza soffermarsi a confermarla. Eppure la luce non è affatto ingenerosa, nutre anzi gli estetismi esasperati del regista rendendo cangianti le vetrate, illuminando il rosone/occhio di bue rigorosamente decorato a motivi geometrici. In realtà non è che l’interno della chiesa non sia convincente, non sia arredato come dovrebbe essere arredato, ma il regista è abilissimo a trascurare di farlo notare. Tutto ciò si ripete nelle manifestazioni spirituali: la preghiera prevede solo le mani giunte. Genuflessioni? Segni di croce? Rosari et similia? Scordateveli. Non ci si toglie nemmeno il cappello. Unica concessione è un Gloria in excelsis Deo cantato dalle alunne della scuola, ma si tratta di un momento puramente musicale assimilabile agli altri presenti nel film (una canzone tradizionale giapponese e una cinese). Insomma quella chiesa è vuota, e lo si percepisce benissimo. Se ciò, a mio avviso, è tutt’altro che casuale, va detto che tra cattolicesimo ed estremo oriente – nonostante il respiro universale della Chiesa – c’è un solco culturale considerevole; fraintendimenti e grossolanità sono quasi la norma nelle traduzioni visive della nostra religione confezionate da quelle parti (basti pensare, ad esempio, agli anime… su cui potrebbe essere divertente fare una panoramica, prima o poi). Potrebbe accadere qualcosa di analogo se gli svedesi trattassero un aspetto altrettanto profondo e sentito della realtà coreana: introiettare correttamente valori intimi e ben strutturati di una cultura che non si condivide è difficile in qualunque direzione. Giusto per fare un esempio: chissà che cosa potrebbe pensare, qualora riuscisse a vederlo, un cinese (per quanto penso che la Disney, desiderosa di far breccia in quel mercato si sia avvalsa – invano – di ogni precauzione), degli antenati fosforescenti del film Mulan?

Resta il fatto che, oltre al gap culturale certamente presente, la sensazione di fondo è che il materiale scelto per il film sia stato maneggiato con estrema cautela.

O forse semplicemente non sono riusciti a trovare un valido consulente cattolico? ;)



FOTOGRAMMA/PENSIERO #20: DJANGO UNCHAINED
2 luglio 2013, 5:03 PM
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DJANGO(Django Unchained, USA, 2012, Quentin Tarantino)

Sono tra quanti celebrano Tarantino, piuttosto che esecrarne il massiccio citazionismo o la violenza. Django Unchained si colloca in diretta continuità con Bastardi senza gloria (Quentin Tarantino, 2011), trasferendo l'”esorcismo della storia” dagli orrori europei a quelli americani (con tanto d’incrocio: eroe americano in “terra tedesca” / eroe tedesco in terra americana). Così Quentin riproporziona l’atto cinematografico, sostituendo alla risibilità malinconica di un falso macrostorico, la simpatica rivincita di un’invenzione microstorica.

Una delle qualità di Tarantino è la forte attenzione ai dettagli, aspetto che rende impossibile considerare casuale – ma sarebbe difficile per qualunque film – la presenza di un rosario al polso di Broomhilda. Si tratta della scena inerente un flashback di Django, nel quale sua moglie, mentre egli supplica in ginocchio, viene frustata da due sgherri. Posto che non può trattarsi di un semplice dato di colore, vale davvero la pena di meditare un attimo, azzardando senza pretese alcune spiegazioni. Chi conosce Tarantino potrà confermarmi la sua insofferenza per i contenuti religiosi, dunque occorre dare ad ogni aspetto il giusto peso, non di più. Il motore principale di tutta la tortuosa vicenda dello schiavo liberato Django, è il suo ricongiungimento alla moglie, cui è stato separato da un padrone crudele. Questa ricerca difficile, anzi disperata, non si motiva col semplice amore romantico, che pure è sottinteso e in fondo celebrato. A rendere spontanea questa impresa, a renderla automatica, scontata, fattibile senza batter ciglio… è l’amore sigillato dal matrimonio. È una minuzia un po’ pedante, che ai più sfuggirà o sembrerà un trascurabile dettaglio narrativo… e invece sostanzia pienamente uno sforzo umano temerario, un’implicita preghiera alla fortuna, a dir poco spudorata.

“Django! …Non avevo idea che fossi sposato! Ehm, beh… gli schiavi credono nel matrimonio?”, chiede Schultz, amico di Django e promotore della sua causa; “Oh… io e mia moglie sì. Il vecchio Carruca no, per questo siamo scappati”.

Django e sua moglie credono nel matrimonio, per questo – oltre a quell’amore che dà forma alla nostalgia più dolce e struggente – semplicemente non è loro concesso di arrendersi o dimenticarsi. Non è loro concesso fin che morte non li separi. Il succo è questo. E Tarantino, se ho capito quanto egli tenga al realismo dei suoi personaggi, delle sue trame tutto sommato improbabili, lo specifica appositamente. E lo rimarca con quel rosario strattonato nell’aria dai colpi della frusta. I due credono nel matrimonio perché credono nel loro amore, e possiamo credere che per loro la questione non sia umorale o mentale, ma forte in quanto sacra. E da qui  il plot attinge l’epicità del suo respiro, di un percorso in salita che, come detto proprio nel film, sa di leggendario. È uno stratagemma mirabile utilizzato con rara intelligenza laica, come dato culturale efficace, con sottintesti religiosi concreti ma finalizzati alla trama, non a sé stessi o al loro opposto.

La scelta di Tarantino non è forzata, e viene adottata proprio in forza di precise fattualità storiche. Nella scena scelta per questo ventesimo Fotogramma/pensiero, si allude al sistema filosofico cristiano protestante, il quale aveva strutturato questi errori anche attraverso la strumentalizzazione delle Scritture. Uno degli aguzzini di Broomhilda, uno dei fratelli Brittle, è figura caricaturale di questo meccanismo il quale, mentre la frusta viene fatta vibrare, impugna saldamente una Bibbia e declama i versetti più congeniali al suo sadismo. La cattolicità della coppia, in questo contesto, non solo è compatibile al sentimento di alterità degli aguzzini, ma è correttamente convocata a livello storico: molti schiavi furono infatti cattolici, in particolare quelli prelevati dal Congo.

Tornando al nucleo del discorso, non si deve rimaner stupiti che l’universo tarantiniano contempli questi assoluti, né si dovrebbe forzarli in una direzione confessionale, dal momento che valgono al livello umano più basico e sanguigno. Ho sempre pensato che Kill Bill (Quentin Tarantino, Vol. 1, 2003; Vol. 2, 2004) fosse in definitiva un grandioso affresco sulla maternità. Tolti i fuochi d’artificio rimangono l’amore immenso di una donna per suo figlio,  quello che è disposta a fare per il suo bene, e quello che è disposta a fare per placare il dolore di averlo perduto.

Qui, in D. U. avviene lo stesso per il matrimonio e, rinunciando all’esplicito alone confessionale dell’oggetto scelto, (che comunque stona con l’esasperata vendetta dei film tarantiniani), si può ben guardare all’amore che sa di essere per sempre, e che può produrre una garanzia indistruttibile – quale che possa essere – di questa consapevolezza.

Che simbolicamente il cattolicesimo trasmetta ancora questi antichi valori, che sono certamente religiosi ma altresì squisitamente laici (e Tarantino, essendo “ateiggiante”, lo sa e li sceglie per questo), non può che farci piacere.



FOTOGRAMMA/PENSIERO #19: AMISTAD
17 gennaio 2012, 5:56 PM
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(Amistad, USA 1998, di Steven Spielberg)

Gli schiavi imprigionati sull’Amistad (cioè amicizia), nave spagnola negriera, riescono a ribaltare il proprio destino sciogliendosi dalle catene e giustiziando i propri aguzzini. Intercettati dagli americani dovranno subire, ulteriore sfregio, un difficile processo gravato da questioni internazionali, politiche, storiche, umane. In una bellissima sequenza vediamo il Giudice Coglin, convocato machiavellicamente dai sostenitori dello schiavismo perché cattolico (anzi, perché monumentalmente insicuro, in particolare sul suo retaggio cattolico – e dunque presumibilmente agganciato agli interessi spagnoli convenienti alla causa schiavista) decidere il verdetto al cospetto di un consigliere di infinita saggezza. Contemporaneamente all’interno della prigione alcuni “schiavi” sfogliano una Bibbia con evidente interesse, osservando le incisioni relative alla vita e Passione di Cristo ivi contenute. Come potrà l’uomo essere perdonato, perdonarsi e perdonare quest’orrore senza misure? L’insistente presenza della croce che da questo istante e fino al verdetto invade il racconto, lo afferma chiaramente.



FOTOGRAMMA/PENSIERO #18: DRACULA DI BRAM STOKER
19 dicembre 2011, 9:21 PM
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(Bram Stoker’s Dracula, USA 1992, di Francis Ford Coppola)

Ho sempre amato Dracula e i vampiri (in generale ma con discrimini), quindi cavalco volentieri l’onda Breaking Dawn e propongo un fotogramma/pensiero un po’ diverso dal solito (e più lungo). La sezione vampiresca del genere horror è esattamente al secondo posto, dopo quella esorcistica, per uso dei simboli religiosi cattolici: là dichiaratamente, qui più in sottinteso. Il genere gotico ha, lo si può osservare partendo dal suo stesso nome (gotico), un’intima propensione per tutto un repertorio di forme e significati cattolici, per un sapere, una tradizione “cattolica” affascinante ed arcaica, una garanzia sicura contro il male. Naturalmente non bisogna omettere che il cattolicesimo profumava, per gli scrittori anglosassoni che lo adottarono nei loro romanzi, di superstizione… una superstizione adatta a lavori immaginifici e smaccatamente scollegati dal reale.  Il vampiro ha moltissimo a che spartire con qualunque demone, e dunque l’avversione per gli oggetti sacri è quasi perfettamente sovrapponibile a quella satanica: croci, acqua santa, luoghi consacrati… nella strabocchevole filmografia del genere vampiresco, anche in salsa teen, è stata richiamata alla mente di milioni di appassionati proprio l’idea che questi elementi abbiano un reale valore sacro… almeno per qualcuno (l’industria dell’intrattenimento ha ben presto proposto un brillante reimpasto di queste associazioni mentali… come leggo a proposito di True Blood). La battaglia col Nosferatu si conduce ampiamente brandendo soprattutto la croce di Cristo, simbolo di ogni bene, e solo pochi altri elementi compongono il Sacro Arsenale dell’Ammazzavampiri. La quantità di rilavorazioni ha richiesto uno sforzo di fantasia nel proporre approcci originali a tali oggetti: in una delle migliori scene di Buffy the Vampire Slayer (7×02 – Beneath you, Nick Mark), Spike (un villain atipico) riconquistata la propria anima  restando  fisiologicamente un vampiro abbraccia un crocifisso, lasciandosi ustionare; nel film Dracula’s Legacy (Patrick Lussier, 2001) si vuole che il demonio possa essere ucciso solo tramite impiccagione (per motivi… originali, appunto), e in esso entra in scena addirittura una Bibbia che, scagliata contro Dracula, divampa facendolo arretrare.

Nel Dracula di Coppola, per arrivare finalmente al nostro fotogramma, abbiamo il brano  più intenso: si è scelto infatti di mantenere un richiamo allo “strumento” più potente di tutti, il corpo stesso di Cristo. Non si tratta, ovviamente, del ghiribizzo di uno sceneggiatore, ma della volontà di mantenere un elemento ripetutamente convocato da Stoker sulle sue pagine (per questioni più vaste, come noto, snaturate a dispetto del titolo). L’ostia consacrata è in assoluto l’elemento più sacro della cattolicità… e non stupisce, nonostante la sua palese ed irruenta valenza apotropaica (è un eufemismo, ovvio), che incontrarlo sullo schermo in questi termini sia rarissimo, visto il rispetto (o il timore di polemiche) che ovunque suscita. Nel Dracula di Stoker il male fa disperare, seduce e colpisce infallibilmente, ed è capace soprattutto di infettare quasi fosse un virus, propagandosi attraverso una sorta di rito antieucaristico. Dracula è un anticristo che dona la vita eterna insegnando quanto di più lontano possa esistere dal sacrificio: l’omicidio, di fatto, antropofagico.  Invocare la protezione sacramentale dell’eucaristia non appare esagerato… e non lo apparve di certo a Stoker, che la impiega spessissimo (in modi che si potrebbero considerare anche sacrileghi) proprio per trasmettere la misura di un orrore pervasivo e del conseguente bisogno di un antidoto estremo che non ammette, ed è questo l’aspetto interessante, possibilità di fallimento.

Stoker apparteneva alla Church of Ireland, ma sua moglie era una fervente cattolica*; i diari dello scrittore, rinvenuti recentemente* forse potranno rivelare qualche elemento in più (saranno pubblicati nel corso del 2012, l’anno del centenario della morte dell’autore). Sull’eventuale afflato pro o contro cattolicesimo del romanzo di Stoker si sono interrogati alcuni studiosi offrendo analisi critiche che conosco troppo parzialmente per lanciarmi in osservazioni sicure… tuttavia, pur intuendo la problematicità di un similie trattamento della nostra religione, sono propenso a lasciarmi coinvolgere da alcuni particolari passaggi del romanzo. Vi saluto indicandovene due fra loro collegati: Jonathan Harker prima di salire nella diligenza che lo porterà al castello del Conte e, più tardi, dopo aver percepito la gravità delle circostanze:

Era una situazione ridicola, e tuttavia non mi sentivo affatto a mio agio. Comunque, avevo impegni precisi e non potevo tollerare intralci. Ho fatto quindi per sollevarla, dicendole, con tutta la serietà possibile, che la ringraziavo ma che non potevo rinviare il mio appuntamento, e che dovevo andare. Lei allora si è rimessa in piedi, asciugandosi gli occhi, e si è tolta una crocetta che portava al collo, porgendomela. Non sapevo che fare perché, essendo anglicano, mi era stato insegnato a considerare oggetti simili poco meno che idolatrici, e d’altra parte mi sembrava assai poco gentile opporre un rifiuto a una donna anziana animata da così buone intenzioni e nello stato d’animo in cui trovava. Suppongo che ella mi abbia letto il dubbio in viso, perché mi ha messo al collo il rosario cui era appesa la crocetta, dicendo: “Per amore di vostra madre” e se n’è andata.

[…]

Benedetta sia quella buona, buonissima donna che m’ha messo il rosario al collo!, perché, ogni qual volta lo tocco, mi è di conforto e mi da forza. È strano che un oggetto che mi è stato insegnato a considerare con diffidenza, come alcunché di idolatrico, possa essere di tanto aiuto in momenti di solitudine e turbamento. C’è qualcosa, nell’essenza stessa dell’oggetto, o questo è soltanto un veicolo, un tangibile ausilio che fa tornare a galla ricordi amabili, confortanti? Un giorno o l’altro, se sarà possibile, devo riflettere sul problema e tentare di venirne a capo.

B. Stoker, Dracula, Mondadori, Milano, 2005, pp. 33, 57.



FOTOGRAMMA/PENSIERO #17: ALIVE – SOPRAVVISSUTI
21 ottobre 2011, 12:13 PM
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(Alive, USA 1993, di Franck Marshall)

Alive è un film che incuriosirà sempre poiché, fra tutto ciò che in esso si rappresenta, a spiccare dalle bocche della gran parte degli spettatori rimarrà la rappresentazione del tabù, dell’atto estremo per la sopravvivenza compiuto dai superstiti del disastro aereo delle Ande. Il pensiero di trovarsi nel mezzo di una situazione così tanto disperata, assolutamente disperata, potrebbe comprensibilmente far baluginare l’idea che Dio, crudele assenteista, semplicemente non esista. Vi riporto le parole di uno dei sopravvissuti poste d’introduzione al film, le quali, un po’ a sorpresa e quasi a scanso d’ equivoci, prendono di petto proprio questa faccenda:

[…] “Il miracolo delle Ande”, è così che l’hanno chiamato. Molta gente viene da me dicendo che se fossero stati là sarebbero certamente morti. Ma… ma non ha senso… finché non vieni a trovarti in una situazione come quella. Tu non puoi avere idea di come ti comporteresti. Ma a dover combattere la solitudine senza decadimento, o una sola cosa materiale a cui prostituirsi ti innalza su un piano spirituale nel quale percepisci la presenza di Dio. Il Dio che mi hanno insegnato a scuola esiste. E il Dio che è nascosto da ciò che è intorno a noi in questa civiltà esiste, è il Dio che ho incontrato sulla montagna.

Nel fotogramma scelto vediamo uno dei momenti di preghiera del gruppo (nella foto Carlito). Ogni notte per esternare la speranza, ottenere aiuto, stemperare gelo e paura, il gruppo, tutto stretto dentro alla carcassa dell’aereo, recita il rosario. Non manca in mezzo a tanta struggente fibra religiosa un personaggio agnostico, Fito, che giustamente rifiuta di unirsi alla preghiera nonostante le insistenze (anche seccate) dei compagni. È un momento divertente e drammatico assieme (un difficile mix emozionale per lo spettatore) quello che lo vedrà piegarsi agli eventi. Una scena di cui non vorrei dire altro, ma che merita speciale attenzione per aver rappresentato il non facile scontro tra orgoglio e istinto.



FOTOGRAMMA/PENSIERO #16: IL CONQUISTATORE DEL MESSICO
19 settembre 2011, 12:12 am
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(Juarez, Usa 1939, di William Dieterle)

Il fotogramma di questa puntata è di straordinaria bellezza. L’ Imperatrice Carlotta, moglie di Massimiliano d’Asburgo, implora in ginocchio e con infinita umiltà un’altra Sovrana. L’accoratissima supplica di ottenere un figlio passa attraverso parole cariche di trasporto e gesti ricolmi dell’amore più sincero. Il fermo immagine, vero e proprio santino cinematografico,  fissa l’apice di una preghiera struggente.

Qualche giorno fa ho scoperto una riflessione ironica su questa scena: l’attrice che dà spessore e trepidazione alle speranze di Carlotta del Belgio, l’indimenticabile Bette Davies, proprio a ridosso degli anni in cui girava questa scena (fra i ’30 e i ’40), per non danneggiare la sua carriera compì una serie di aborti. In un’intervista degli anni ’80 rivelava di non credere che un aborto compiuto nel primo mese di gravidanza costituisse un omicidio. Una sottolineatura di questa ironia si ha dal fatto che lo stesso padre della Davies, Harlow Morrell Davis (agnostico), a suo tempo non riuscì nell’impresa di convincere la moglie a fare altrettanto.



FOTOGRAMMA/PENSIERO #15: MANGIA PREGA AMA
21 agosto 2011, 11:35 PM
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(Eat Pray Love, USA 2010, di Ryan Murphy)

Non so voi, ma se io dovessi fare un gioco in cui si deve mangiare-pregare-amare in tre diversi luoghi, Roma-India-Bali… farei l’impossibile per scegliere di mangiare a Roma. Oddio… a differenza della protagonista non mi entusiasmerei entrando con lo sguardo in una macelleria (né sentirei Mozart mangiando un piatto di spaghetti col sugo – ma sono Italiano: ho gli anticorpi contro la sindrome di Stendhal gastronomica). Quello che voglio dire è che il cibo indiano lo proverei… sono curioso e aperto verso tutto, mi piace provare tutto… ma se dovessi ‘MANGIARE nel pieno senso del termine’… no no… sceglierei proprio Roma, sono sicuro. Ecco, anche Liz la pensa così ma, pur condividendo il mio entusiasmo per i piatti mediterranei, il suo ragionamento centrale è un altro… non importa granché che lei sia alla ricerca disperata di Dio e sia occidentale e si trovi nell’epicentro del cristianesimo: lei entra in una chiesa… insomma la religione italiana la prova, è curiosa e aperta verso tutto, le piace provare tutto… ma se deve ‘PREGARE nel pieno senso del termine’, cavoli… niente di più logico e immediato che fuggire di corsa in un centro di meditazione indiano. Non mi aspettavo che un titolo contenente la parolaccia “prega” (girato parzialmente a due passi dal Vaticano), offrisse un momento di ispirazione cristiana (come del resto non mi aspetto che chiunque entri in una chiesa debba avere automaticamente una rivelazione)… ma pensavo almeno che al solito cliché di un’Italia anni ’50 dove si discute dal barbiere e non c’è l’acqua calda, non si aggiungesse automaticamente l’aggravante di  azzerare, assieme alla nostra complessità culturale… la millenaria esperienza del cristianesimo.

Ho scelto questo fotogramma, e non un’immagine della Roberts in chiesa, perché mi sembrava più originale e simpatico… oltre che più rappresentativo dello spirito del film.