LA LUCE IN SALA


LE CHIAVI DEL PARADISO
6 Maggio 2014, 3:07 PM
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(The Keys of the Kingdom)

USA, 1944, di John M. Stahl, con Gregory Peck, Thomas Mitchell, Vincent Price, Benson Fong, Leonard Strong, Rose Stradner…

keys-of-the-kingdom-movie-poster-1944-1020746572Quale modo migliore per festeggiare l’uscita in DVD di un film introvabile, se non quella di proporvene la recensione? Le Chiavi del Paradiso, tratto dall’omonimo romanzo di A. J. Cronin (nel quale si narrano la vicende del missionario in Cina Padre Francis Chisholm), è uno dei tasselli più eloquenti dell’ “antica” produzione hollywoodiana già profondamente affine al cattolicesimo. Facciamo infatti continua esperienza di quanto i tempi siano profondamente mutati rispetto ad allora, trovandoci oggi in prossimità all’acme di un processo iniziato appena qualche lustro dopo il ’44 (l’anno del film), ovvero quando si muovevano i primi passi in questo senso posizionando il tema missionario sotto una luce sospettosa, critica e, come sostiene Philip Jenkins (ne La terza chiesa, Roma, 2004, p. 60) “ipercritica”; ovvero con produzioni in questo filone che, dopo il film di Stahl, conducono direttamente al The Mission di Joffé e al meno conosciuto La generazione rubata (Noyce). Così Jenkins centra, secondo noi, la questione:

“tutte queste opere recenti presentano un’idea grossomodo simile della realtà missionaria. Soprattutto le missioni rivelano un errore di concezione; se tutte le tradizioni religiose hanno un valore più o meno uguale, a che scopo mettere i pregiudizi di una cultura al di sopra di quelli di un’altra? Questa visione di perfetto relativismo viene meno, in qualche modo, quando si parla del cristianesimo occidentale, dato che esso è visto come un modello ipso facto meno valido e attraente di quelli che vuole sostituire. Generalmente il cristianesimo, più che una religione, sembra essere un insieme di pregiudizi e inibizioni occidentali”.

chiavi del paradiso 01Proprio questa cruda verità rende sempre straniante la visione di questi grandi classici, pare infatti impossibile non tanto la generosità e compiacenza con cui la Chiesa veniva in essi descritta (non escludendo di osservarne i difetti per dare forza alla verità, suggerire – simulare? – un’obiettività di giudizio), quanto all’apparente sovrapposizione d’intenti tra la major di turno e, appunto, la Chiesa: catechizzare, confermare nella fede, infervorare. Naturalmente alla 20th Century Fox interessava assai più caldamente il profitto – sarebbe ingenuo pensare il contrario – ma ciò non sminuisce affatto la portata di quanto andavo dicendo, rendendolo anzi ancor più significativo da un punto di vista sociologico: si offriva insomma al pubblico, proprio come oggi, ciò che avrebbe potuto rivelarsi un successo. Per capire quanto sbancare i botteghini contasse su un massiccio pubblico religioso basta soffermarsi un momento sui tracotanti slogan del trailer d’epoca, ove insistendo sulla matrice letteraria del film si proclama “Dalle pagine che hanno toccato e rapito il cuore di 30.000.000 di persone… libro del mese della club selection… definito come la storia più memorabile nel Ladies Home Journal; la 20th Century Fox presenta un lungometraggio che sarà celebrato come indimenticabile…” e via dicendo. Siamo negli anni in cui la National Legion of Decency – di ispirazione cattolica – aveva notevole potere, ma è altresì cruciale che a spingere Darryl Zanuck (il responsabile della produzione Fox dell’epoca) nell’impresa di questo titolo (con una delle cifre più alte dell’anno, ben 3.000.000 di dollari), fosse stato lo straordinario successo riservato, una manciata d’anni prima, a A song for Bernadette. Per la serie “come eravamo”, il cattolicesimo costituiva insomma una garanzia di successo: lo sapevano i dirigenti, e lo sapeva la turba di artisti alla costante ricerca del copione azzeccato, attori e registi (persino Alfred Hitchock aveva accarezzato seriamente l’idea di girare questo film!).

chiavi del paradiso 02Ma veniamo alla sinossi. L’anziano Padre Francis Chisholm è in osservazione della diocesi poiché potenzialmente problematico: i 33 anni trascorsi in estremo oriente l’hanno reso insofferente, non troppo mite e – per la sensibilità di quegli anni – intellettualmente esplosivo. Il monsignore incaricato di giudicarlo ripercorrerà così, per caso, l’intera vicenda dell’osservato attraverso le sue memorie scritte. Queste descrivono la vita del prelato sin dalla felice infanzia trascorsa con un padre cattolico e una madre protestante, poi una serie di vicende sfortunate e infine la scelta del sacerdozio. Il suo spirito non convenzionale spingerà la diocesi a inviarlo in estremo oriente, in Cina, dove il prelato, tra enormi difficoltà, riuscirà ad avviare un proficuo centro missionario. Nel trascorrere degli anni si avvicenderanno episodi avventurosi e di profonda crisi (gli scontri armati, l’epidemia di colera…), mentre fra le mura della missione si assistono a tensioni interne dovute al contrasto tra Padre Chisholm, di umili origini, e una sua sottoposta, Madre Maria Veronica , di nobile lignaggio.

Il film mostra tutti i crismi di una produzione che reca sulle spalle i 70 anni d’età: alcune ingenuità, stilemi che al nostro palato sanno inevitabilmente di vetusto, consistenti differenze comunicative. Posto che il gusto della visione non stia proprio nel soppesare questa distanza, si può dire che nonostante la pellicola possa quasi etichettarsi come “film per nostalgici”, essa risulta ancora godibile in forza di una trama avvincente, un’ambientazione esotica desueta e affascinante (per altro tutta artificiale, ricostruita negli studi della Fox), e soprattutto (per lo spettatore cattolico), la descrizione serena di un operato missionario avventuroso e di cocente spiritualità, aperto a momenti di grande empatia, sorpresa, suspence e riflessione. Le oltre due ore di film scorrono insomma con ritmi alterni, ma senza mai annoiare.

chiavi del paradiso 03Colpisce inoltre l’interessante descrizione di una Chiesa indagata nelle sue ormai antiche aritmie sociali e nelle emergenti sfumature “protoconciliari”: in ciò il film offre senz’altro i contenuti storicamente più intriganti, tutt’altro che risolti in un atteggiamento di denuncia ma narrati, a mio avviso, nella fiduciosa consapevolezza di un’imperfezione in costante perfezionamento. È il risultato della rimozione o dello smussamento attento degli ingredienti più controversi del bel romanzo di Cronin (rimaneggiamenti che comunque non dispiacquero all’autore), nella ricomposizione di vere e proprie “smagliature teologiche” (Francesco Licinio Galati*) al limite dell’irenismo più spericolato. Si ottenne così un prodotto che rifuggendo la polemica si proponeva sulla scena mondiale con ortodossia, composte spinte ecumeniche e tuttalpiù qualche punzecchiatura – forse anche salutare – su alcuni specifici tipi di sacerdote.

Il riuscito ritratto cinematografico di Padre Chisholm è dovuto in massima parte al carisma di Gregory Peck, che a questo ruolo dovette la candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista e il definitivo e ininterrotto decollo della propria carriera.

chiavi del paradiso 04Senza indulgere ulteriormente nel discutere di un film che in gran parte dev’essere scoperto, chiudiamo con una testimonianza di Peck sul film: “Mi aiutò moltissimo un certo Padre O’Hara, un missionario cattolico che aveva vissuto in Cina per otto anni e che conosceva il cinese. Rammento in particolare una scena in cui io avrei dovuto pregare in cinese, ma non riuscivo ad immedesimarmi; non so, non mi sentivo naturale. Allora Padre O’Hara si offerse di recitare la scena al posto mio. Cominciò a camminare in mezzo alla folla di comparse cinesi, facendo tintinnare un campanellino d’argento; davanti a ogni fedele si inchinava con grazia solenne e poi cominciava a parlare in cinese. Ripeteva ciò che aveva già fatto migliaia di volte nella vita. Allora capii perché non ero stato capace di recitare quella scena: mi mancavano quella grazia solenne e il profondo rispetto per ogni persona come individuo”. (J. Griggs, Gregory Peck, Roma, 1984, p.27)



LES MISÉRABLES
4 febbraio 2014, 10:07 am
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(Les Misérables)

UK, 2012, di Tom Hooper, con Hugh Jackman, Russell Crowe, Anne Hathaway, Amanda Seyfried, Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter…

les-miserables-poster-italianoCONTIENE SPOILER – Come sia possibile che due autori ebrei (Alain Boublil per la versione francese, Herbert Krezmer per la trasposizione – con ampliamenti – in inglese), mettendo mano al capolavoro di un capostipite dell’anticlericalismo contemporaneo (Hugo), abbiano partorito un’opera dal cattolicesimo palpitante, è questione dai risvolti per lo meno interessanti.

Oggi possiamo godere, grazie all’ottimo lavoro del regista Tom Hooper, di un lungometraggio che renda onore alla versione musical del romanzo; pellicola che a sua volta (ancora inaspettatamente), insiste in una dirittura cattolica dell’opera.

L’epicità delle vicende narrate, e la partecipazione dello spettatore che ne scaturisce immancabile, risalgono al fatto che la storia (nel musical e ovviamente nell'”epos” da cui è pressoché fedelmente traslato) percuote l’idea di Essere Umano nelle viscere attraverso concetti di cui oggi, soprattutto nel cinema, c’è profonda nostalgia: perdono, redenzione, virtù, sacrificio. Quattro pietre d’inciampo che un po’ per motivi squisitamente storici e culturali (il romanzo è diffuso nella Francia del 1862), ma soprattutto per la personale ricerca filosofica di Victor Hugo, si muovono in un’orbita sì oscillatoria, ma chiaramente cattolica. Del resto è una caratteristica interiore di tutto il genere del romanzo storico europeo, quali che ne siano le tesi: l’appoggio a premesse filosofiche desunte dalle strutture teologiche cristiane è di fatto ineludibile: “Le catacombe in cui si è detta la prima messa non erano soltanto le cantine di Roma, ma il sotterraneo del mondo” (1), per dirla con Hugo stesso.

1Credo che liquidare il film di Hooper -imperdibile- con un commento entusiasta e la facile etichetta di “film cattolico”, sia un’occasione sprecata per penetrarne veramente la radice originaria, certificandone la religiosità che ne costituisce l’impalcatura interna e che è altresì affair delicatissimo, da rapportarsi obbligatoriamente alle spigolosità di un romanzo immortale di parentela giacobina, il quale fu, com’è noto, messo persino all’indice. Aspetto quest’ultimo che non fa che rendere ancor più stuzzicante e necessaria la comprensione delle opposte tensioni tra film e romanzo, anticlericalismo e cattolicesimo.

2Per poter proseguire è necessario un accenno all’inizio della trama. Protagonista della lunga vicenda è il forzato liberato Jean Valjean; questi, incarcerato oltre vent’anni addietro per il furto di un tozzo di pane, esce dal bagno penale intimamente abbruttito e carico di odio distruttivo. Respinto come lebbroso dall’intera società, come richiesto dal suo curriculum, troverà unico rifugio da una notte invernale nell’accoglienza del vescovo di Digne, Monseigneur Bienvenu. Jean, predatore capace di sola vendetta, si alza nel cuore della notte, ruba l’argenteria da tavola e fugge via. Il mattino dopo è riconsegnato da due gendarmi al prelato, il quale, contro ogni previsione, nega di essere stato derubato, ma anzi, di aver donato di sua libera iniziativa quel piccolo tesoro al suo “amico”. L’atto d’amore deliberato di Monseigneur Bienvenu demolisce l’intera personalità di Valjean, lo sconvolge profondamente invertendo tutte le sue logiche: da questo momento sarà una persona nuova, una persona per cui il bene diventa l’obbligo, il compromesso impossibile. Les Misérables apre poi molte parentesi narrative sull’amore, la povertà, la ribellione politica e via dicendo, diviene un romanzo pressoché corale, ma la sua radice, il filo conduttore ultimo, è la peregrinazione esistenziale di Valjean, la sua estenuante e difficilissima lotta – esteriore e soprattutto interiore – per conservare quel tocco divino accorso a salvarlo.

Monseigneur Bienvenu è il motore della storia, il big bang narrativo di trama, sottotrama, poetica e morale . È questo il motivo per cui Hugo spende una notevole quantità di pagine per caratterizzarlo con la massima precisione (ci viene riportato anche il rendiconto di come egli usufruisce del suo vitalizio!): è sostanzialmente un bravo prete e una persona degna di credibilità se non di stima, una specie rara, sembra dirci Hugo, di cristiano non ipocrita.

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Ma perché Hugo, vate del radicalismo repubblicano, piazza in questa posizione un vescovo? Un signorotto con le mani in pasta negli strascichi dell’ancient régime? Come noi se lo chiedeva il figlio dello scrittore che, come testimoniato dalla sorella Adele nei suoi diari, sconcertato dalla scelta del padre lo coinvolgeva in accese discussioni: perché un prete? Perché non un medico? Uno scienziato? Una qualunque mente illuminata? La risposta di Hugo ci fa riflettere:

“Non posso mettere il futuro nel passato. Il mio romanzo si svolge nel 1815. Del resto, questo sacerdote cattolico, questa pura e alta figura di vero sacerdote è la satira più sanguinosa del sacerdote attuale. Non mi interessano le opinioni dei repubbicani ciechi e ostinati. L’uomo ha bisogno della religione. L’uomo ha bisogno di Dio. Lo dico ad alta voce, ogni notte io prego” (2).

Quale sia la religione di cui ha bisogno l’uomo, e quale sia il senso della preghiera, Hugo non lo specifica, ma intende certamente quell’idea generica e filomassonica che gli consentì, senza battere ciglio, le parentesi di acceso anticlericalismo che si ravvisano, tra i molti esempi, anche nei capitoli centrali de I Miserabili. La parabola religiosa di Hugo, granitcamente cattolico in gioventù e rientrato all’ovile prima della morte (stando alla testimonianza di S. Giovanni Bosco, che ne fu l’artefice), qui interessa solo in funzione del contenuto del suo romanzo: nelle molte pagine di cui si compone la sua opera emerge infatti un cattolicesimo latente, quasi schizofrenico. Dietro all’esigenza di realismo (“non posso mettere il futuro nel passato”) si nascondono quei germi dottrinali ricevuti negli anni infantili, ed essi contaminano, volente o nolente, la filosofia che vorrebbe emanciparsene. Monseigneur Bienvenu è frutto lampante di questa commistione, di questa ricostruzione storica inflazionata da un ricordo spirituale. Insomma, se la religiosità più “adulta” del poeta ha potuto disfarsi di chiese e superstizioni, ne I Miserabili a ottenere l’impossibile (il rivolgimento completo di un’anima), è proprio un faccendiere di questi elementi.

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Bienvenu, in quella che secondo Hugo dovrebbe essere l’esemplarità, cede ad atteggiamenti talvolta… diciamo lievemente sospetti; ingredienti che narrativamente ne arricchiscono il ritratto rendendolo sfaccettato ed umano. C’è in lui un lieve assaggio di quel pressapochismo deista che ai palati cattolici coevi doveva risultare pericoloso: non che non lo fosse, ci mancherebbe, ma nel vescovo di Digne è dosato con estrema attenzione, pena mancare la credibilità del personaggio; e se alcune sue uscite fanno un po’ di equilibrismo tra religione e scienza sociale, altre hanno il preciso scopo di qualificarlo come un consapevole uomo di Chiesa (una frase fra tutte: “Non sono al mondo per salvare la mia vita, bensì per salvare delle anime”). Si tratta perlopiù di piccoli episodi che incorniciano la limpidezza evangelica del vescovo, senza intaccarne veramente il ministero; rivelano piuttosto le piccole voluttà ideologiche cui non seppe sottrarsi il grande scrittore (3) (talvolta con esiti rasentanti il naif: Bienvenu sarebbe stato casualmente notato – prima di divenire vescovo – da Napoleone in persona, e raccomandato dunque allo zio, il cardinale Fesch).

Apriamo poi una parentesi che riguarda un altro personaggio rilevante: Marius, un giovane idealista, dottore in legge dotato di tutte le qualità della nuova epoca (e che combatterà anche nelle barricate). Per motivi che sarebbe troppo difficile spiegare verso la fine del romanzo egli si trova a dover decidere, conosciutane l’identità di ex forzato, della sorte di Valjean. Il giovane allontana Jean, lo invita all’esilio: è del tutto incapace di replicare una minima parte di quanto fece all’inizio della vicenda un membro del clero.

Chiarita l’impronta di Monseigneur Bienvenu passiamo adesso a una valutazione di più ampio respiro sulla “sensazione” religiosa che Hugo imprime al suo romanzo. Che lo scrittore fosse stato in passato un fervido cattolico risulta chiarissimo in qualche passo per le suggestioni, le atmosfere che lo scrittore riesce a creare: una volta rimessosi sulla strada, successivamente al perdono del vescovo, Valjean è in preda ai più cocenti dissidi interiori. É intimamente ferito più che guarito, e agisce per l’ultima volta nel male, scientemente, derubando un ragazzino di una moneta. È un piccolo episodio (solitamente, come comprensibile, omesso dalle trasposizioni cinematografiche), che ha il difficile compito di completare la rivoluzione interiore del “miserabile”. Hugo riesce a rendere perfettamente la perdita della Grazia, anzi, la perdita della Grazia dopo che la si è appena ottenuta (deve insomma averne saputo qualcosa di confessionali e assoluzioni). È questo contrasto, questa riaffermazione del male dopo aver conosciuto il bene che spinge definitivamente Jean ad agire di lì in avanti, sotto lo sguardo del Signore, divenendo di fatto agente della Sua provvidenza.

Un altro aspetto fondamentale della dirittura religiosa dell’opera è infatti proprio la Provvidenza, la quale con discrezione, ma talvolta clamorosamente, rivela che lo sguardo di Dio è partecipe alle sofferenze di Valjean, lo accompagna e ne accoglie i sacrifici con “meccanismi” che sono l’antitesi del distacco che ci si aspetterebbe da un Grande Architetto qualunque. Il Dio dei I Miserabili tesse il suo complesso arazzo comprimendo il male negli orditi del bene.

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Osserviamo ora l’anticlericalismo più scoperto, per il quale Hugo si ritaglia l’occasione parlando della storia del convento parigino del Petit Picpus, nel quale si svolgono numerose scene. Sono le pagine più eterodosse di tutto il romanzo, nel quale lo scrittore si accanisce, come vuole la miglior tradizione anticlericale francese, sulla vita monastica. Nulla che Diderot e compagnia bella non avessero già detto a loro tempo, ma in Hugo, nell’esposizione logorroica, l’argomento si colora di contraddizioni e di quello che prima definivo “cattolicesimo schizofrenico”. La prosopopea anticattolica dedicata ai monasteri è copiosissima, attingiamo a caso qualche esempio: “Il convento […] è una delle più cupe concezioni del Medioevo. Il chiostro è il punto d’intersezione dei terrori. Il chiostro cattolico propriamente detto è tutto pieno della tetra irradiazione della morte”; “Chi dice convento dice palude. La loro putredine è evidente, il loro stagnamento malsano, la loro fermentazione dà la febbre ai popoli e li intristisce; il loro aumento diventa piaga d’Egitto”; “Quanto a noi rispettiamo qualcosa e risparmiamo tutto il passato, purché accetti di essere morto. Se vuol essere vivo, l’attacchiamo e cerchiamo di ucciderlo. Superstizioni, bigottismo, bacchettonismi, pregiudizi, queste larve, quantunque non siano che larve, si aggrappano alla vita; hanno denti e unghie nel loro fumo, bisogna spegnerle corpo a corpo, far loro guerra e fargliela senza tregua, perché è una fatalità dell’uomo essere condannato all’eterno combattimento coi fantasmi”.

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Parole tagliate con la scure (o la ghigliottina), cui seguono o s’inframmezzano o fanno eco più tardi nel testo punzecchiature all’ateismo (“C’è una filosofia che nega l’infinito. C’è anche una filosofia, classificata patologicamente, che nega il sole; questa filosofia si chiama cecità”); ridimensionamenti arruffati (“Noi biasimiamo la chiesa quand’è satura d’intrigo, disprezziamo lo spirituale quando viene dopo il temporale; ma onoriamo ovunque il pensatore. Salutiamo chi s’inginocchia. Una fede: ecco ciò che necessita all’uomo. Sventura a chi non crede in nulla!”); vere e proprie rigirate di frittata (“Non c’è forse opera più sublime di quella che fanno quelle anime. E aggiungiamo: forse non c’è lavoro più utile”; “Ci vogliono quelli che pregano sempre per coloro che non pregano mai. Per noi tutta la questione sta nella quantità di pensiero che si unisce alla preghiera”); dichiarazioni di incertezza (“Quando si parla di conventi, di questi luoghi di errore ma d’innocenza, di smarrimento, ma di buona volontà, di ignoranza ma di devozione, di supplizio ma di martirio, bisogna sempre dire sì e no”); tentativi grossolani – a tratti risibili – di sintesi estrema (“dal punto di vista strettamente filosofico […], a condizione che il monastero sia assolutamente volontario e non racchiuda che dei volontari, considererò sempre la comunità claustrale con una certa gravità attenta e, sotto qualche punto di vista, deferente. Dove esiste la comunità là c’è il comune, c’è il diritto. Il monastero prodotto della formula: Eguaglianza, Fratellanza. Ah, com’è grande la libertà!… e che trasfigurazione splendida! Basta la libertà per trasformare il monastero in repubblica”); straordinarie concessioni di ammirazione (“Quanto a noi che non crediamo in ciò che quelle donne [le monache] credono, ma che come loro viviamo nella fede, noi non abbiamo mai potuto considerare senza una specie di terrore sacro e tenero, senza una specie di pietà e d’invidia, queste creature devote, tremanti e fiduciose […]”; “[Valjean] aveva sotto gli occhi il culmine sublime dell’abnegazione [le monache], la più alta cima della virtù possibile; l’innocenza che perdona agli uomini le colpe commesse e che espia per loro; la servitù subita, la tortura accettata, il supplizio richiesto dalle anime che non hanno peccato per le anime che hanno errato; dolci essere deboli aventi la miseria di coloro che sono ricompensati”).

Ciò che nel flusso chilometrico dei testi di Hugo diviene una girandola di pensieri che ritornano su sé stessi in ripensamenti e aggiustamenti, nella crudezza delle estrapolazioni appena effettuate provoca un senso di grave indeterminatezza di fondo. Da quest’analisi – e limitatamente a Les Misérables – non si può che rilevare un anticlericalismo sofferto, nervosamente impreciso.

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La vita di Valjean è una costante lotta per il bene, nelle difficoltà più disperate, nelle tentazioni indefesse verso il compromesso, l’odio, la salvaguardia del proprio egoismo, nelle incomprensioni e nella solitudine assoluta: con la pazienza di chi ha definitivamente capito, tutto viene – con grande fatica e sforzo – sopportato e posto sotto lo sguardo di un Dio benevolo e accogliente. Non ci vuole granché a capire, per quanto non venga palesato a parole, che Valjean tende tutto sé stesso alla santità (nel senso letterale, cristiano, del termine). Non è poco, considerando la reputazione della penna da cui è uscito.

Sul letto di morte Valjean non fa chiamare sacerdoti, rifiutando dunque i sacramenti; Hugo in questo modo riequilibra ciò che avrebbe rischiato di risultare definitivamente incoerente con la sua battaglia. Tuttavia anche un fatto così forte viene mantenuto nell’ambiguità, e circondato di attenuanti: Valjean è convinto di non meritare nulla, di essere ancora un reietto che tutto deve subire e nulla attendere. E chiama a sé, tuttavia, comunque un prete: “-Volete un prete? / -Ne ho già uno – rispose Valjean. E parve accennasse col dito a un punto sopra il suo capo, quasi ci scorgesse qualcuno. È probabile infatti che il vescovo assistesse a quell’agonia”.

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Les Misérables dunque, malgrado tutto, a mio avviso è un romanzo quasi cattolico; espressione d’un cattolicesimo infettato, aggredito e al contempo ribadito in un processo narrativo che ai giorni nostri può serenamente (ovviamente intendo da un punto di vista religioso) essere apprezzato.

Nel momento in cui ci si è proposto, arditamente, di applicare al romanzo le strutture proprie del musical, la componente cattolica che abbiamo sin qui osservata è stata pienamente accolta e potenziata per far fronte a inevitabili esigenze di sintesi, chiarezza, introspezione tramite il soliloquio/assolo (ecco il perché delle numerose preghiere cantate). Il percorso di Valjean è un percorso cristiano-cattolico: per renderlo realmente credibile in tutta la sua forza in uno show che per raggiungere l’eccellenza deve frustrare la complessità del testo originario (comprimendolo entro una struttura musicale obbligata, una “scaletta” che intrattenga), è stato necessario renderlo riconoscibile, motivarlo in ogni punto del narrato.

Gli autori, a dispetto – come dicevo nell’incipit – delle loro origini, hanno sublimato i germi cattolici utilizzati da Hugo in una trasfigurazione di impressionante intensità.

Il musical, apprezzabilissimo dunque anche per i contenuti, risulta tuttavia superficiale se raffrontato alla complessa poetica di Hugo: nell’economia dello show si sono dovuti sacrificare o snaturare numerosi momenti interessanti. È il motivo per cui talvolta si parla, per la trasposizione da palcoscenico, di “opera a sé”. Non sono della stessa idea: alcune ricomposizioni e addensamenti hanno scontentato anche me, ma lo spirito ultimo – e semmai è qui che si dovrebbe discutere – mi pare sia rimasto intatto: non mi sento di pretendere, dalle penne che hanno costruito lo spettacolo, un “miracolo” ulteriore rispetto a un testo melodico di assoluta bellezza, grandioso almeno quanto il testo di Hugo esigesse. La religiosità dei personaggi, Valjean in primis, è un ingrediente sapientemente sfruttato per fa parlare i personaggi dei loro dissidi, ma anche per innalzare tutto quanto su un livello più ampio e universale (proprio come voleva il poeta). La polemica religiosa è espunta sin dalla radice per non ostacolare questi elementi, e per porre in evidenza la base del percorso esistenziale di Jean, colonna portante dell’opera e aspetto di più delicata trattazione. Probabilmente non si è neppure sentito il bisogno di porre inutili interferenze alle emozioni dello spettatore, saldamente catturare dall’antico matrimonio tra musica e spiritualità.

9Venendo finalmente a parlare del film, che è il motivo per cui dovremmo essere qui, riconosceremo immediatamente come Hooper, che insiste nella conformazione cattolica dell’opera in due modi, visivo e fenomenico, abbia capito che l’ingrediente vincente del musical è l’aver saputo trasmettere a un pubblico immenso, in modo persuasivo, i passi più struggenti e forti del romanzo francese. Ha così ribattuto fiducioso la china indicata da Boublil: con un approccio sul lungo percorso che definiamo “visivo”, Hooper ha arricchito le performance musicali – anche per una questione estetica – con una cascata di dettagli religiosi (ovvero ambienti chiesastici, crocifissi, immagini sacre, rosari, vetrate, candele e via dicendo). L’altro tipo di approccio, assai più clamoroso, è quello che ho definito “fenomenico”: ovvero una precisa scelta registica, posta nell’acme del narrato, che si dissocia dal musical riagganciandosi al “problema” che avevo tratteggiato a proposito del letto di morte di Valjean. Hooper risolve quell’ambiguità scegliendo di far comparire, per accompagnare il trapassato in Paradiso, Fantine (come nel musical) ma anche, sostituendo Eponine, proprio il vescovo Bienvenu, il quale si inserisce nel canto come terza voce proprio allo scadere della frase: “E rammenta, la verità che una volta fu detta, amare un’altra persona è vedere il volto di Dio”. La scelta di Hooper è felicissima, sia per il significato religioso che conferisce all’intera opera in senso ampio, sia per la precisione filologica dimostrata nel comprendere e riproporre il messaggio ultimo del romanzo, dove “l’amore” di cui si parla è infatti quello tra ogni essere umano. (Insomma… in poche parole la fraternité torna a farsi cristiana).

Il film di Hooper è meritevole per moltissimi altri aspetti, come esposto accanto alle criticità, in molte recensioni professionali cui – essendomi dilungato troppo – vi rimando. Io l’ho trovata un’opera grandiosa, ove il materiale di alta qualità offerto in partenza è stato ben coronato, dandogli l’azione e un respiro lirico – monumentale, che il palcoscenico era costretto a contenere.

In conclusione si tratta di un grande film per una grande storia, una trasposizione di cui si sentiva veramente il bisogno nonostante si fosse giunti ben oltre qualche decina di versioni cinematografiche. Un’impresa che attraverso il percorso fino a qui seguito ci ha consegnato un film magnifico, epico e, quel che a noi interessa… cattolico. Tutti aspetti che secondo me, nel centocinquantesimo anniversario della sua fatica, lo dico per fare a Hooper il complimento massimo, il grande Victor Hugo avrà certamente apprezzato.

(1) Tutte le citazioni dirette dal romanzo saranno – purtroppo – prive di riferimenti precisi: è decisamente uno degli inconvenienti di leggere su Kindle.

(2) M. Vargas Llosa, La tentazione dell’impossibile, Victor Hugo e «I Miserabili», Milano, 2011, pp. 81-82.

(3) Potrebbe non essere necessario, ma per sicurezza specifichiamo  che nonostante la prospettiva di chi giudica i fatti, non si ritiene affatto che l’anticlericalismo di Hugo sia in toto sordo e spregiudicato. Alcuni suoi spunti – va da sé, i più assennati – sono anzi ancora attuali.



L’ESORCISTA – VERSIONE INTEGRALE
14 giugno 2013, 5:04 PM
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(The Exorcist)

USA (1973) 2000, di William Friedkin, con J. Cobb, Ellen Burstyn, Max Von Sydow, Linda Blair, Jason Miller …

L'EsorcistaGeorgetown è nell’ombra, sulle villette borghesi, ordinate, l’oscurità notturna s’è unita al buio di un fenomeno inspiegabile, la tetraggine di un mistero tangibile e feroce. È il motivo per cui, nonostante l’ora tarda, davanti a casa McNeil ha frenato un taxi e ne è disceso un uomo nerovestito che da subito, con la sua stoica amarezza, sembra incarnare chissà come, la forza della consapevolezza. Quella descritta è une breve scena de L’Esorcista che, gelata in un bellissimo fermo-immagine, scelta come elegante sintesi del film da porre in locandine e copertine varie, ne è divenuta il simbolo. Una forte consapevolezza dicevo – una consapevolezza squisitamente cattolica – che, raschiate via le rutilanti imprese demoniache e le immagini schockanti, emerge con forza eccezionale dall’intero narrato cinematografico.

Temo che nulla di nuovo si possa aggiungere a quanto detto negli anni su questo luminoso capitolo della storia del cinema: dopo la concitazione dei suoi primi giorni il film s’è mantenuto freschissimo nelle chiacchiere degli adolescenti fino ad oggi, grazie all’aura di film maledetto/perverso/proibito (l’aneddotica è sterminata); una riedizione in versione integrale che ne ha stimolato un tardivo prequel e svariate parodie; il ruolo di pietra miliare, nei discorsi più dotti, e di termine di paragone ineludibile per gran parte della produzione orrorifica posteriore. Ovvieremo a questo impasse provando a puntare su ciò che ci interessa più da vicino, ovvero la componente religiosa del film. So che a qualcuno suonerà strano, ma oltreoceano questo lungometraggio viene definito addirittura “one of the most pro-Christian/Catholic films ever made”.La religiosità del film ha da sempre sofferto dell’irruenza visiva scelta da Friedkin, questo perché, stando alla mia esperienza, si è spesso incontrata una comprensibile ma superficiale reazione di scandalo suscitata dall’istintiva protezione dei fedeli per i propri simboli più sacri i quali, come viene inevitabilmente ad eternarsi su celluloide, sono brutalmente attaccati nell’enfasi tragica della storia. A ciò va aggiunto un senso di imbarazzo, coincidente, per altri, con la presa di distanza da situazioni giudicate dannose alla causa del “cattolicesimo moderno”, un cattolicesimo che (in barba a quanto ancora Papa Francesco ripete a giorni alterni) avrebbe conosciuto la cosiddetta “morte di Satana”, la sua definitiva investitura a pura metafora e simbolo di vari concetti negativi. Questi ultimi spettatori smaliziati vanno così ad ingrossare le fila di chi sceglie una lettura integralmente laica o razionalista, bollando il lungometraggio come opera di pura fantasia, e chiosando infine col truismo: “è solo un film”. Questa, dicevo, è la mia limitata esperienza, calata nella prospettiva microscopica di uno spettatore tra gli spettatori (nella quale, sono certo, molti potranno ritrovarsi), ma una valutazione sull’impatto religioso ad un livello più significativo è offerta dal regista stesso, che così si esprime:

“Il film è stato sostenuto e lodato ai più alti livelli della Chiesa cattolica. Ad aver avuto problemi col film sono state persone provenienti da altri gruppi religiosi o con nessuna religione in particolare. Molti dei loro problemi, credo, sono nati da una mancanza di comprensione del rito romano e del cattolicesimo in sé, per la quale nutro il più profondo rispetto. Ma ben pochi studiosi cattolici ebbero dei malumori sul film*”.

Karras Dyer

Padre O’Malley, che nel film interpreta Padre Dyer, illustra a Jason Miller la gestualità corretta per dire Messa. (Da Catholics in the movies, p. 217 – Courtesy of the Academy of Motion Pictures Arts and Science.)

Il teologo gesuita Padre Thomas Bemingham, il religioso coinvolto come consulente alla realizzazione del film (e che Blatty ringrazia in fondo alla sua fatica letteraria di ispirazione alla pellicola, “per avermi suggerito il tema di questo romanzo”, e che interpreta, fra l’altro, il rettore dell’università nel film), intervistato da Radio Vaticana il 2 febbraio 1975 ha affermato che L’Esorcista non è il solito film dell’orrore ma qualcosa di molto diverso; un’opera che, mettendo a parte le esagerazioni cinematografiche, affronta di petto, e seriamente, il problema del male. É benevolo anche Padre Gabriele Amorth, che qualche anno fa (ovvero – me lo permetto col gran rispetto che gli porto – quando appariva più equilibrato) così diceva:

[…] sono anche grato al film l’Esorcista che, pur volendo dare spettacolo, con scene irreali, è un film che sostanzialmente è esatto. Ha avuto un impatto mondiale, con un pubblico vastissimo, ha rimesso nelle orecchie delle persone l’esistenza di questo strano essere che si chiama Esorcista, di cui si erano perse le tracce. Ha divulgato il personaggio dell’esorcista. […] (M. Tosatti – G. Amorth, Inchiesta sul demonio, Piemme, 2003, p.59).

exorcist 01

Il film mi pare che si spinga molto oltre, e magistralmente (senza retorica o sciatti trionfalismi) rivela un’attenzione quasi filologica nella trasposizione in immagini del rituale; mostra il profondo realismo, la razionalità dell’esorcista che interviene (e così deve essere), solo allorquando la scienza risulta impotente (quando si possono escludere cioè tutte le patologie psichiche note); allude al nesso cruciale tra spiritismo e possessione; mostra l’esistenza personale, concreta e attiva del demonio (non, come d’uso, un attraente tenebroso figuro tanto cattivo quanto affascinante, ma entità animalesca di grottesca volgarità); infine soprattutto, la realtà salvifica dell’operato sacerdotale che è, tra l’altro, il cardine dell’intera vicenda (il titolo è “L’Esorcista”, non “Il demonio”).

Naturalmente è bene precisare anche dell’altro: si tratta di un film dell’orrore, né apologetico né catechetico in prima battuta, e ci tengo a completare il quadro delle opinioni autorevoli facendo presente quanto espresso dallo stimabile esorcista Don Gino Oliosi (autore dell’ottimo Il demonio come essere personale – Fede & Cultura) il quale, in occasione di un appuntamento entro la rassegna Cafè Teologico di Desenzano, privilegia un giudizio di impronta pastorale che dà peso all’irrealtà del film:

Le possessioni, che oltretutto sono rare, le vessazioni, le ossessioni, le negatività, sono i modi diversi con cui si verifica empiricamente la sua azione [del demonio], sono la punta di un immenso iceberg. Purtroppo queste sono quelle che fanno notizia. Sapeste quanto male ha fatto nella televisione L’Esorcista, non so se voi l’avete visto, quanta gente debole psichicamente ancora oggi è influenzata da quello. Che poi, com’è il linguaggio cinematografico, ha deformato completamente l’esorcismo come preghiera, e quindi ha creato il terrore. E io non vorrei che identificaste l’azione del demonio con quello che vi ho descritto [si riferisce alla testimonianza diretta del suo ufficio d’esorcista, offerta appena prima]*.

exorcist 02

Ho mantenuto l’aspetto colloquiale del messaggio, trasmesso oralmente. Don Oliosi intende dire, potendo valutare con completezza l’intero suo discorso, che l’azione ordinaria del demonio, infinitamente più imponente sebbene meno sensazionale, è in proporzione molto più dannosa per l’anima umana della possessione (anche per la sua minor evidenza). Il sensazionalismo eccitato da film come L’Esorcista, e ancora più la fantasiosità in esso contenuta, oscura questa verità che dovremmo considerare quotidianamente, legando altresì la natura della preghiera, e soprattutto l’azione della Grazia da essa promanante, a un annichilente senso di paura o ad immagini pittoresche e banalizzate. Verissimo, e l’ho rimarcato perché ne sono assolutamente convinto; tuttavia se si colloca lucidamente il “chiasso” proprio dell’opera filmica nel posto che gli spetta, ovvero tra gli effetti legati a un’opera artistica che solo dopo aver spaventato, vuole dire qualcosa di estremamente serio, porrei senza la minima esitazione L’Esorcista tra i film fieramente cattolici. Questo non significa che una bestemmia cessi di essere una bestemmia o che ci si debba rallegrare di vedere una statua della Vergine brutalizzata indecentemente (per non dire altro), ma credo che questi scempi possano essere tollerati in vista del messaggio e della catarsi finale, i quali ne traggono proporzionale vigore, spessore e autenticità.

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Aggiungerei che la blasfemia è un ingrediente inevitabile legato a queste realtà drammatiche, e non dovrebbe essere intesa come una tara particolare del film. Chi leggesse il romanzo da cui si è trasposto fedelmente il film (il vero punto di forza dello stesso, anche secondo il parere di Friedkin), scoprirebbe che la crudezza relativa a questa blasfemia è infinitamente più abbondante ed accanita, costituita di immagini orripilanti e valanghe di dati – con tutta probabilità non inventati (si parla ad esempio, è l’unico dato che mi è capitato casualmente di incrociare con studi storici specifici, dell’episodio di Loudun) – relativi alle più sacrileghe pratiche sataniste, perversioni, deformazioni mentali. Una mole di informazioni anche scientifiche (sulle varie patologie mentali o abilità psichiche) che non bastano forse a definire il romanzo come “documentato” – non era comunque nelle intenzione dell’autore – ma testimoniano l’intenso lavoro di ricerca propedeutico alla stesura dello stesso. Nonostante il risultato di questa minuzia gravi pesantemente sulla sensibilità del lettore cattolico (anche con picchi traumatici!), essa nulla toglie alla verità ultima della vicenda che anzi, ne è irrobustita profondamente, sostenuta dal pilastro di una lucidità trasparente, concreta e credibile perché poggiante sulla solida base del disincanto e dello scrupolo. Non è da temersi insomma il confronto frontale con un realtà disgustosa e scomodissima pur di avvicinare la Verità. Una verità ultima coronata fra l’altro da una manciata di pagine di raffinata meditazione cattolica e di alto valore formativo, preludio alla conclusione della storia che, come saprete, è lieta solo parzialmente: un finale agrodolce che diviene l’apice delle esagerazioni denunciate da Oliosi, ma che nel linguaggio drammatico e romanzesco intendeva, mi pare, sconfiggere il fortissimo demone Pazuzu attraverso il sacrificio più grande ed eroico che Padre Karras, come uomo e sacerdote, potesse compiere.

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La prova del nove dell’ortodossia e preziosità di questo terribile film si recupera tra le righe di quanto osservato da Colin Mc Dannell nel bel libro Catholics in the movies (p. 218), a proposito della prezzolata critica di testate tutt’altro che papiste:

 I critici più prestigiosi [nonostante il pubblico accorresse in massa] non furono impressionati. Vincent Camby del New York Times e Pauline Kael del Newyorker accusarono l’Esorcista di utilizzare la religione come pretesto per far soldi tramite il sensazionalismo e il sesso. Entrambi detestarono l’Esorcista con veemenza non più evocata per alcun titolo religioso fino a The Passion of the Christ di Mel Gibson.

 Tralasciamo pure gli estratti dalle critiche di questi eroici paladini.

Penso che L’Esorcista sia un grande, grandissimo film. Penso che ancora oggi dischiuda la percezione dello spettatore su un problema che ognuno può esorcizzare come crede (bubbole, lacune scientifiche, allegoria dell’errore umano, roba da antropologi, nonmipongoilproblemamifasoloridere…), ma oggettivo e reale. Blatty, da scrittore cattolico, e Friedkin da regista ebreo agnostico di grande realismo (convinto, un po’ funambolicamente nel suo agnosticismo, della realtà dell’esorcismo), consegnano alla Chiesa Cattolica un atto di fiducia, ovvero il possesso della chiave per sconfiggere il Male. Per chi crede, ciò è reale assai in anticipo rispetto ai confini di un singolo rito amministrato occasionalmente; per chi non crede questo film è un buon racconto di paura… in cui la Chiesa Cattolica ha comunque saldamente in mano le redini della situazione (e le tira mirabilmente).

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Concedendomi una parentesi personale devo confessare, non senza tentennamenti, che a me questo film ha fatto molto bene (o molto male, a seconda dei punti di vista), nel momento in cui mi è capitato di vederlo (prima liceo – dunque extended cut). Mi ha terrorizzato e mi ha spinto a conoscere, a ragionare su questo mistero. Penso abbia persino avuto una certa colpa nella mia definitiva – e ormai temo irrevocabile – accettazione della religione cattolica. Chiaramente sorrido sotto ai baffi dicendolo… eppure il ricordo di quello sgomento, l’aver aperto gli occhi all’improvviso su questioni che ignoravo bellamente e che chiedevano urgentemente di essere smentite o per lo meno proporzionate, mi appare oggi determinante. Da quel momento (probabilmente sarebbe successo poco dopo con un altro pretesto… o forse no?) ho iniziato a conoscere davvero la mia religione, recuperarla intellettualmente, porla in guerra con me stesso sapendola sensata. È solo una testimonianza, una reazione fra molte altre che però, piaccia o meno… c’è stata. E se davvero il barbiere di James Cagney, dopo aver visto questo film, ha appeso il rasoio al chiodo dopo 35 anni e s’è fatto prete*, non mi pare nemmeno la più scomposta. Gli effetti di questo film (oltre agli omicidi, gli infarti, i casi di suggestione esagerata) possono essere anche questi! Resta assolutamente sconsigliato ai minori di X anni; fate benissimo a sconvolgervi per le scene più trucide e a biasimarlo perché è scurrile ed eccessivo, ad evitarlo se siete delle anime delicate… ma riconoscetegli questo robusto e prezioso fragore religioso.

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Com’è noto, l’extended cut è sempre da preferire. Essa è forse ancor più spaventosa, ma reintroduce il dialogo tra Padre Karras e Padre Merrin che segue un tentativo fallimentare di esorcismo. Con gran dispiacere di Blatty la scena venne tagliata nella versione del ’73 per volontà del regista, che riteneva penalizzasse l’escalation finale del ritmo narrativo; eppure si tratta, secondo le parole di Blatty, di

“un’esplicita articolazione del tema che dà al film chiarezza e concreto peso morale; chiarezza perché focalizza la storia di Karras e del suo problema di fede; e concreto peso morale perché colloca gli elementi osceni e repellenti del film nel contesto del primario attacco del demonio su chiunque, vale a dire la tentazione alla disperazione”. (W. P. Blatty, The Exorcist: From Novel to Film, New York Bantam, 1974,  pp. 35, 275-81).

Chiudo lasciandovi le parole di questo dialogo, riprese dal romanzo (W. P. Blatty, L’Esorcista, Torino, 2002, p. 303), non solo per il contenuto (che la concisione del momento narrativo costringe in una riflessione assai tronca), ma per porre l’accento sulla più autentica natura di questa brutta storia, di questo “brutto” film, talvolta – forse anche a suo vantaggio e del messaggio che veicola – frainteso.

“Comunque, io ritengo che il bersaglio del demone non sia la persona ossessa… Damien, il bersaglio siamo noi… gli osservatori… nel caso attuale, ogni persona che si trova in questa casa. E credo… credo che lo scopo sia quello di condurci alla disperazione…, di farci respingere la nostra condizione di persone umane, di farci apparire di fronte a noi stessi come esseri fondamentalmente bestiali, niente altro che bruti. Esseri fondamentalmente abbietti e corrotti, spregevoli, vili, indegni. Perché, a mio avviso, la fede in Dio non è affatto una questione di raziocinio. Io credo che sia unicamente una questione di amore e che presupponga, da parte nostra, l’ammissione della possibilità che Dio ci ritenga degni del Suo amore”.



LE DUE SUORE
24 dicembre 2011, 5:38 PM
Filed under: Di ispirazione, Film

(Come To The Stable)

USA 1949, di Henry Koster, con Loretta Young, Celeste Holm, Hugh Marlowe, Elsa Lanchester, Thomas Gomez, Dorothy Patrick, Basil Ruysdael, Dooley Wilson, Regis Toomey, Mike Mazurki …

Le due suore qualche decennio fa era considerato un bel classico di Natale. Come tanti altri vecchi film di impronta cattolica (attualmente “famosi” solo sulla carta) riscosse un notevole successo di pubblico e di critica (ben sette nomination agli Oscar – nominato miglior film ai Golden Globe) è finito inesorabilmente nel dimenticatoio e, ignorato dalla distribuzione, è diventato praticamente irreperibile. Non che questa scelta sia del tutto incomprensibile, il film è decisamente datato nel modo di intrattenere lo spettatore: tutto ha il sapore incantato di una favola, l’umorismo è piacevole ma fin troppo garbato, le avversità delle vita sono edulcorate… Si tratta insomma dei meccanismi propri di queste tragicommedie e dunque, come da copione,  non poteva mancare neppure una parentesi musicale al pianoforte!

Siamo nell’innevata Bethlehem, vicino a New York, due suore giunte dalla Francia, Suor Scolastica e Suor Margherita, stanno camminando nella neve. Sostano presso la casa di una pittrice di immagini sacre nella quale si sta rappresentando una natività vivente, in modo che la donna la possa ritrarre. Le due, accolte dalla donna, confidano di avere una missione precisa: in adempimento di un voto fatto a Dio (che salvò i bambini del loro ospedale in Normandia dai bombardamenti tedeschi), le due sono fermamente intenzionate a costruire un nuovo ospedale in America.

Si recano ovviamente dal vescovo il quale, pur apprezzando lo zelo e il candore di fede delle due sostiene di non poterle aiutare economicamente in quella che, effettivamente, appare come una follia. Suor Margherita e Suor Scolastica non si perdono d’animo e armate di fede e determinazione intraprendono un cammino irto di difficoltà verso la realizzazione del loro piano, coinvolgendo, di volta in volta, vari personaggi che gravitano intorno alla cittadina. Ce la faranno? Chissà… tenete conto che siamo pur sempre in un film natalizio e che, insomma, potremmo definirlo niente di più che una bella favoletta romantica… Ma è proprio così?

Leggo su “Life” dell’ 8 agosto 1949 (p. 49) che la scrittrice del film, Clare Boothe Luce, fu stimolata a concepire questo soggetto dopo essere stata colpita delle vicende del Regina Laudis Priory a…. Bethelhem! La Reverenda Madre Benedict Duss giunse nella cittadina di Bethelhem dalla Francia del secondo dopoguerra su invito di una nota pittrice di soggetti religiosi, Miss Lauren Ford. Suor Benedict era accompagnata da Suor Mary Aline Trilles, e le due possedevano in tutto soltanto 20 $… oltre alla grande forza lavorativa e alla fede coriacea, certo. Ospitate dalla pittrice già dopo poco ottennero in dono il terreno necessario da un vicino di fede congregazionalista, l’industriale Robert Leather. Questi possedeva una collina coperta di pini che desiderava mantenere integra perpetuamente… e sapeva che le suore ne avrebbero avuto cura come un luogo sacro.  Si iniziò così la costruzione del loro monastero, che esiste ancora oggi (non un ospedale, la natura contemplativa dell’ordine è stata modificata per andare incontro alla sensibilità del pubblico americano). Un film davvero cattolico, per ambientazione e ispirazione, che offre diversi momenti (se si guarda oltre al sentimentalismo) di vera spiritualità. Una scena fra tutte: le due sorelle pregano San Giuda, il santo delle cause perse, inginocchiate in cima alla collina. Se cercate un film che abbia l’atmosfera giusta per una serata precedente il giorno di Natale… Le due suore fa proprio per voi.



LA CONVERSA DI BELFORT
18 ottobre 2011, 2:38 PM
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(Les anges du péché)

Fr. 1943, di Robert Bresson, con Marie Helene Daste’, Renee Faure, Jany Holt, Sylvia Monfort…

Esiste un luogo o un circuito di anime che possa dirsi completamente impermeabile al male? Sarebbe forse troppo ingenuo anche il solo pensarlo, ed ecco perché quando esso penetra, in quest’opera prima di Bresson nel convento di Belfort, potremmo essere dispiaciuti della sua azione sottile e invasiva ma, a ben vedere, non poi così sgomenti.

Annamaria, una ricca giovinetta tanto fiduciosa nella propria vocazione da contaminare l’ardore con l’arroganza, entra in convento. Un rifugio particolare, sconsigliabile in realtà alle novizie del suo lignaggio: in esso vi si accolgono e recuperano ex detenute pentite e rinnovate nella fede. Annamaria è, pur con le difficoltà che le porta un temperamento orgoglioso, seriamente fissata nel desiderio di migliorare e apprendere… ma è tuttavia con un eccesso di amor proprio che insiste, e ottiene, di dedicarsi anima e corpo alla conversione e all’assistenza della meno recuperabile fra le delinquenti: Teresa. Quest’ultima, sorda alla benché minima influenza spirituale durante la detenzione, una volta uscita di prigione compirà un atto vendicativo e, ricordandosi con mente utilitaristica dell’invito a entrare in convento, vi si recherà trovando nella clausura la migliore fra le coperture. Qui, stuzzicata dall’acceso interessamento di Suor Annamaria risponderà all’amore con l’odio.

No, l’opera di Bresson non è, come potrebbe far pensare questa premessa, una stucchevole filastrocca su come la vita di preghiera possa cambiare radicalmente un’anima disinteressata al bene. La questione è ben più complessa, e l’indagine cinematografica si rivela impagabile nella ricerca di spessore e chiarezza tanto sul piano spirituale che su quello non meno importante della psicologia. Le due anime imperfette, quella di Suor Annamaria e Suor Teresa, descrivono percorsi inversi che congiungendosi portano allo scontro drammatico. Se come osservavo nell’incipit il male entra realmente ovunque ed affonda robuste radici nonostante il terreno gli sia nemico…  possiamo altrettanto constatare come nessuno, specularmente, sia al riparo dalla Grazia. Non vi è in questa parabola il tocco favolistico del bene che vince sul male… ma proprio quello della Grazia che non vince, che si lascia piuttosto vincere e, perdendo tutto, …vince. È un insegnamento che i cristiani conoscono bene.

Di secondaria ma concreta importanza notiamo l’interesse nello scoprire e rappresentare ritmi, rituali, peculiarità della vita monastica, la quale trova una trascrittura di vivissima suggestività. Complice la fotografia atmosferica, baluginante, le teorie di monache in preghiera, in processione o al lavoro assumono la bellezza misteriosa e lontana (per un pubblico generico, certo), di un microcosmo imperfetto e umano, nonostante tutto, ma sinceramente dischiuso alla meta di ogni orazione.

Sacrificata all’indagine della vita consacrata permane una componente poliziesca bastevole a conservare allo spettatore una punta di malessere e di costante attesa. Attesa che, in un narrato dai ritmi discontinui, conduce l’occhio dal primo all’ultimo fotogramma senza sforzi, mentre i dialoghi corposi ed eleganti (propri di un film d’altri tempi), incorniciano l’efficacia delle immagini con la forza delle parole. Il minimalismo spiccato proprio del fare bressoniano si coniuga ad una mancanza ammutolente di spettacolarizzazione, tutto a vantaggio del significato. Da vedere e rivedere.



MILLIONS
21 settembre 2011, 11:11 PM
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(Millions)

UK/USA 2004, di Danny Boyle, con James Nesbitt, Daisy Donovan, Lewis McGibbon, Alex Etel, Christopher Fulford …

Di film con bambini che si trovano ad avere per le mani somme megagalattiche (e che sferrano allo spettatore la sempreverde bacchettata sul disvalore del denaro) se n’era già visto qualcuno (mi vengono in mente Richie Rich, Petrie 1994 e Ho trovato un milione di dollari, Wainwright 1993)… ma di bambini con una genuina fissazione per i santi no, non me ne risultano all’appello.

Tutto ciò che viene mostrato dal punto di vista dei piccoli ci riconduce immediatamente a ripensare tante delle nostre priorità quotidiane; e infatti, quella di far coincidere la coscienza innocente e ingenua del fanciullino con la verità, è stata e resterà sempre una formula narrativa di innegabile efficacia. Per nulla consueto è incontrarla unita ad un solido (sebbene alluso in termini squisitamente scherzosi) riferimento dottrinale.

Damian, appena trasferitosi e da poco orfano di madre, si vede piombare dal cielo una borsa piena fino all’orlo di sterline. Sterline che vanno spese al più presto, dal momento che nell’Inghilterra immaginaria del film si sta aspettando l’entrata in vigore dell’Euro. Niente di più logico, per un bambino che conosce la data di nascita e morte di tutti i santi della Chiesa, pensare che tutto quel ben di Dio sia, beh: ben di Dio. Diventerà una vera impresa cercare di fare della sana beneficenza, con tanto di caccia al povero, donazioni improvvisate a chiunque di vagamente bisognoso capiti sotto tiro e, ancora, un fratello finanziariamente smaliziato e un oscuro ricercatore di borse venuto da chissà dove. In tutto questo trambusto Damian riceve assistenza speciale proprio dall’alto, incontrando lungo il cammino alcuni dei suoi veri e propri idoli (nelle foto: Santa Chiara, San Francesco e San Nicola, tutti con gli attributi iconografici d’ordinanza). Ovviamente fa piacere poter ospitare l’opera di un grande regista come Danny Boyle: sì, è proprio quello del grottescamente crudo Trainspotting (1996) il quale, in questo caso pensa un po’, attinge a piene mani dal suo retaggio cattolico, applicandolo alla tensione verso i principi di bontà ed eroismo, vista più recentemente nella luminosa esplicazione del concetto di karma titolata The Millionaire (2008). Piccola parentesi: lo sapevate che Danny Boyle è (era?) cattolico? Ha raccontato in svariate interviste come sua madre lo volesse prete e come, persuaso da un suo insegnante (sacerdote), attese la fine degli studi prima di entrare in seminario. Insomma ci ripensò e oggi commenta con un sospiro di sollievo, “[quel prete]mi ha salvato dal sacerdozio… o ha salvato il sacerdozio da me… non lo so”.

Insomma, quale che sia la situazione spirituale di Boyle, Millions, pur con le divertenti licenze poetiche (S. Chiara si accende una sigaretta -si spera-, S. Pietro fa delle sconvolgenti ma geniali rivelazioni sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci), trasmette un consistente messaggio positivo sulla religione cattolica. Senza entrare troppo nel dettaglio posso dire che il film riserva ulteriori sorprese: non solo si specifica che i santi non sono amici immaginari (come lo spettatore, più che giustamente, potrebbe pensare), ma ci si prende il tempo necessario per riflettere sulla santità come percorso di vita plausibile, persino – e non è poco – auspicabile. Più genericamente il film offre un esempio di civiltà, di altruismo, di un modo corretto di vivere la fede… come la vivrebbe, appunto, un bambino.

Piacevolissimo divertente e acuto, il racconto cinematografico raccoglie un susseguirsi di momenti ben diversi (suspence, azione, commedia, famigliare…) in un tutto eccentrico e variopinto tenuto assieme dalla poliedrica energia del regista. Nota di merito per le musiche (Muse soprattutto).



LA STORIA DI UNA MONACA
12 luglio 2011, 11:04 am
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(The Nun’s Story)

Usa 1959, di Fred Zinnemann, con Audrey Hepburn, Peter Finch, Edith Evans, Peggy Ashcroft, Dean Jagger, Mildred Dunnock, Beatrice Straight, Patricia Collinge …

Il film La storia di una monaca è ancora ingiustamente orfano di un’edizione italiana in DVD. Della diva fra le dive, Audrey, si editano e rieditano tutte le commedie rosa entro collane dai toni glamour, in cofanetti celebrativi dell’attrice simbolo della Hollywood anni ’50 e di quello stile raffinatissimo ancora oggi preso a riferimento, ed esternato nel suo caso con la simpatica (inimitabile?) sprezzatura, registrata da titoli cult come Colazione da Tiffany (Blake Edwards, 1961). Manca dunque all’appello il film in cui ella, che non ebbe un indirizzo confessionale dichiarato (sebbene a dimostrarne la spiritualità cristiana ci siano il matrimonio con Mel Ferrer, il battesimo del loro bambino, il funerale della stessa Audrey nel ’93, tutti celebrati dal pastore protestante Maurice Eindigver) interpretò straordinariamente la suora del titolo, con un lavoro di immedesimazione perfezionato da molte ore trascorse in convento e con membri della Chiesa Cattolica: “per nessun’altra mia interpretazione sul grande schermo ho speso così tanto tempo, energia e riflessione”, dirà l’attrice, che non mancherà di ricordare spesso questo titolo come il preferito della sua carriera. La critica stessa reagisce coerentemente a questa posizione in gran parte persuasa che The Nun’s Story costituisca la miglior interpretazione della Hepburn. Quanti di voi l’hanno visto ricorderanno sicuramente (fra tutte) due cose: la vivida atmosfera spirituale che il rigore totale (ad occhi laici persino esagerato) suscita, e la credibilità senza riserve del conflitto interiore della protagonista, che condurrà inesorabilmente la vicenda a una conclusione a dir poco amara. Proprio l’amarezza di cui vi parlo ha lasciato più di uno spettatore cattolico pensoso… e qualche laicista entusiasmato. Non posso motivare pienamente la presenza di questo film sulle pagine de la Luce in sala senza soffermarmi a considerare il finale, perciò auspico che fra quanti ancora non hanno avuto l’occasione di vedere questo film ci siano persone che vorranno aspettare a leggere quanto segue, o che sapranno altrimenti -cosa che non ritengo difficile- godersi ugualmente la visione di un film in cui la trama è accessoria (ma coinvolgente), rispetto alla lettura dell’interiorità dei protagonisti.
Sarebbe potuto bastare a motivare questa presenza nell’elenco dei film cattolici il contesto della vicenda che offre, per l’appunto, una delle descrizioni meglio approfondite della vita conventuale, della scelta monacale, delle istanze spirituali che sottendono ad una complessa norma di mortificazione, (difficile da digerire senza un pensiero in più anche per il più pacifico dei cattolici).
Gabriella Van der Malle, ragazza belga del periodo antecedente il secondo conflitto mondiale, entra in convento all’età di vent’anni grazie alla forza di carattere che suo padre, un noto chirurgo, le indica invece come possibile ostacolo al suo desiderio di accostarsi a una disciplina di vita interiore così rigida. Gabrielle è giovane, bella, sentimentalmente coinvolta con un coetaneo e capacissima negli studi medici… nonostante tutto questo la vita monastica le appare come la realizzazione massima. Lo spettatore la accompagna in un lungo viaggio punteggiato di difficoltà e disfatte, a cominciare dalla partenza di Gabriella dalla casa paterna, dai primi giorni di noviziato e dalle prime istruzioni delle monache anziane. Noi entriamo in convento con lei. Siamo con lei quando sbaglia, quando deve rimboccarsi le maniche e ricominciare a provare daccapo, quando deve lavorare, studiare, pregare. La seguiamo nelle sue scelte, nei fatti che andranno a delineare sempre più nitidamente uno strappo tra l’ideale monastico, la realizzazione del modello, e le effettive capacità di autodisciplina, di quotidiana rinuncia a coltivare orgoglio, vanità, autodeterminazione soprattutto. Le viene chiesto di sacrificare la sua reputazione di studiosa, e lei non può farlo, le viene assegnato un ruolo più umile di quello cui essa mirava rimanendo, erroneamente, delusa. Arrivata finalmente in Congo, dove da sempre desiderava operare come suora secondo un suo progetto, troverà nell’anticlericale medico che le viene ordinato di assistere un pungolo costante, che le sarà sempre più difficile domare. Rientrata in Belgio per esigenze di assistenza ai feriti di guerra si arrenderà, con dolore crescente, alla sua incapacità di perdonare sé stessa per non aver rivisto il padre morto nel conflitto, e al suo indurito sentimento patriottico che le impedisce di sperare la guarigione dei feriti tedeschi come per quella dei soldati connazionali. Esacerbata fino all’ultima fibra da questo processo emancipatorio in cui la preghiera assume sempre più la consistenza di uno spreco di energia e tempo, rubati al lavoro, essa si risolverà con ormai sorda determinazione alla rottura dei voti perpetui, alla richiesta, dopo 17 anni di vita religiosa, di un decreto di secolarizzazione. Il film è, a mio parere, un capolavoro di indagine. Pur dovendo modellare una materia delicata come la psicologia umana, applicata in questo caso a un rivolgimento completo della persona, non scade mai nella retorica o in scontati simbolismi. Le scene si susseguono col ritmo flemmatico e pacato proprio della vita religiosa, senza estetismi, senza forzature, senza stancare. Tutto viene mostrato con l’onesto distacco di un occhio che si sforza di essere più cronista che narratore, regalando un susseguirsi di stati d’animo, riflessioni, allusioni spontanee che fanno di questo film un lavoro di efferata intensità. La Hepburn è semplicemente fantastica, nulla da aggiungere. Negare che l’egocentrismo umano prevale in questa pellicola, quasi a ragione, sull’abnegazione religiosa, e che il lavoro laico plus-valorizzato dalla guerra deprime la tensione cattolica verso la contemplazione e le opere spirituali, sarebbe una forzatura. Ma cosa possiamo dire di Gabriella? Essa incarna lo spirito femminista che si scrolla di dosso i fantasmi del retaggio papista? È forse il simbolo di una riscossa secolare che gloriosamente si infila aldilà della sacra ruota? Oltre la più fitta trama di una grata claustrale? No… Gabriella cede a un carattere che le ha reso ogni momento una sfida insopportabile, cede alla rassegnazione di non essere portata per incarnare quel modello cui è costretta a separarsi con contrizione e con enorme senso di sconfitta. Accanto a questa sofferta nuova libertà, che piacerà giustamente allo spettatore ateo, dobbiamo dire dei molti richiami alla spiritualità cristiana più genuina, al senso del perdono cristiano, al valore del lavoro e del ruolo istituzionale della chiesa verso gli ammalati e i poveri. Gabriella alla fine non rinnega il suo percorso, non perde la fede, non dubita della rigidità cui ha voluto provare ad accostarsi, ma si ritira per perseguire quella che le sembra la sua vera (e disillusa) vocazione. Il bello di un film articolato in questo modo sta tutto nell’ambiguità raggelante della conclusione, nella polarità delle possibili interpretazioni: laicista e realisticamente acattolica la prima, cattolica e volta a giustificare la debolezza umana alla luce di una fede aprioristica la seconda. In questi casi ritengo sia utile guardare un po’ più approfonditamente alle menti cui l’opera in discussione va ricondotta, per ottenere qualche certezza in più e per proporre delle motivazioni che corroborino quella prima intuizione che potrebbe però, nella democratica verità di ogni lettura interiore, bastare a sé stessa. Abbiamo già detto della religiosità senza apparenti codificazioni della Hepburn, la quale ebbe a dire: “Posseggo un’immensa fede, ma non sono attaccata a nessuna religione in particolare… Mia madre era una cosa, mio padre un’altra. In Olanda erano tutti calvinisti. Questo non ha affatto importanza per me*”. Assai più di rilievo per la nostra disanima è la posizione del regista Fred Zinnemann, un austriaco di origini ebraiche grande affezionato delle tematiche religiose su grande schermo, e del quale non possiamo sospettare alcuna ambiguità, essendo egli fautore di quella smaccata apologia cattolica che è il film Un uomo per tutte le stagioni (1966). Aggiungiamo che egli fu sposato alla cattolica Reneè Bartlett dal 1936 fino all’anno della sua morte, il 1997. Lo stesso The Nun’s Story venne realizzato grazie alla cooperazione prestata al regista dalla Chiesa (ricordiamo che il film venne girato in buona parte a Roma). Andando ancora più a fondo bisognerà ricordare che il plot è tratto dalla vera storia di Sorella Luke, di cui il libro dell’autrice cattolica (scusate se insisto con queste specificazioni, ma è significativo) Kathrin Hulme, l’omonimo The Nun’s Story, propone la puntuale biografia. Negli anni in cui veniva girato il film (lo apprendiamo da David Zeitlin, A lovely Audrey in religious role, in ”Life”, vol.46, n°23, 8 giugno 1959) la vera protagonista del libro si era trasferita a Los Angeles e andò ad abitare presso la scrittrice (che aveva venduto oltre 3.000.000 di copie grazie alla sua storia), prendendo il nome di Gabrielle, il nome di finzione datole nel libro, ma mantenendo per gli amici il diminutivo di Sister Luke, “Lou”. La storia di Lou che apprendiamo dal giornale, costituisce in qualche modo un sorta di interessante epilogo del film: uscita dal convento ci mise un bel pezzo per riabituarsi al mondo esterno; ricorda ad esempio che alcuni amici la indirizzarono da un parrucchiere, ed ella si trovò in seria difficoltà perché non sapeva rispondere a quanto le veniva domandato, non sapeva nemmeno cosa fosse un balsamo! La prima volta che dovette comprarsi una blusa realizzò di non aver mai conosciuto la sua taglia, non ci aveva mai pensato per diciassette anni. Le commesse, riflettendo sul fatto che in 4-5 anni di prigione non si dimentica una così basilare informazione, ritennero semplicemente che la poverina provenisse da una casa di cura. Lou ricorda poi la prima volta che assistette a un film con il sonoro, piangendo talmente tanto per la storia drammatica di una donna che perdeva il figlio, ritrovandolo soltanto sul finire della guerra, da non poter uscire dal cinema, restando in attesa della seconda e poi della terza proiezione… e continuando semplicemente a piangere di più! Arrivò il 1951, e Lou si trasferì negli USA andando a vivere con la Hulme e trovandosi un impiego come infermiera presso il Santa Fe Railroad Hospital. Curare i pazienti era la sua vera passione, e in breve tempo fece carriera diventando l’assistente del direttore delle infermiere. Nel periodo a ridosso delle riprese una delle sue pazienti fu proprio… Audrey Hepburn! “Lei non volle incontrarmi”, ricorda Lou, “sentiva che la storia era troppo legata alla mia vita privata. Si sedette soltanto e mi guardò, senza pormi alcuna domanda”. Dopo The Nun’s Story, quando si trovava in Messico, a Durango, per recitare nel film Gli Inesorabili (John Huston, 1960), Audrey venne disarcionata da cavallo e si ferì gravemente (rottura di 4 vertebre, stortura di un piede, stiramento della schiena ed emorragia interna). Lou inviò un telegramma offrendosi come infermiera per aiutarla, e così il mattino dopo era già in volo per il Messico. Trovò Audrey molto abbattuta (l’articolo parla di dolore fisico e preoccupazioni legate alla produzione del film tacendo di ciò che dirà la storia: si era verificato il primo dei due aborti che segnarono l’attrice). Lou convinse Audrey a tornare a Los Angeles, dove dopo tre settimane di assistenza devota le fece riacquistare piena salute. Perdonate questa digressione a cui non ho potuto rinunciare, siamo arrivati al clou del discorso. Il film era stato una grande soddisfazione sia per la Hulme che per Lou, e quest’ultima disse, dopo aver visto un’ uncut version di quasi quattro ore: “ È stato troppo travolgente!”. Rivide il film altre tre volte, in varie versioni, e dichiarò: “Non andrò mai più a rivederlo, perché se lo faccio, correrò subito in convento. Quando vedi la cappella, tutte quelle suore… ho potuto solo stare lì seduta e piangere tutte le mie lacrime. Non ho rimpianti o altro, ma per la bellezza di quello. È una vita bellissima, la vita religiosa, se sei davvero una persona religiosa. Se puoi accettarla senza lamentarti per tutto il tempo. La gente dice che non ho sbagliato a lasciare il convento. Loro non capiscono. Così tante donne perseverano in quella vita. Loro possono sopportarla. Io no ho potuto accettarla… e ho sbagliato”.



I GIGLI DEL CAMPO
18 aprile 2011, 9:22 am
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(Lilies of the Field)

Usa 1963, di Ralph Nelson, con Sidney Poitier, Lilia Skala, Lisa Mann, Isa Crino, Francesca Jarvis…

Cosa succederebbe se nell’ inospitale deserto dell’ Arizona un giovane giramondo di colore incontrasse cinque suore tedesche appena giunte (a colpi di provvidenza) sul suolo americano? Per i curiosi c’è  il simpatico film “I gigli del campo”, che mostra il prevedibile risultato di una serie di situazioni che vanno dall’ allegro contrasto al vivace bonario scorno. Homer Smith ha bisogno di un pò d’acqua per il radiatore dell’auto e, ignaro delle tecniche di persuasione delle monache la chiede proprio a loro, trovandosi ben presto coinvolto nelle vicissitudini di queste coriacee signore le quali, forti del non conoscere ancora la lingua inglese, riusciranno a far leva sul suo spirito di tolleranza ed empatica abnegazione (per stuzzicarne in un secondo momento le ambizioni sopite dal desiderio di libertà assoluta). Già da queste poche righe sembrerà chiaro come il film sia effettivamente un prodotto dei suoi anni, con una morale positiva dipanata tranquillamente da una rete di progressivi approfondimenti sui personaggi, un umorismo senza malizie o sarcasmi, un plot senza eccessive tensioni. Ho sempre pensato che il bello di questi vecchi film stesse in parte nella possibilità di recuperare uno sguardo sulle piccole cose che abbiamo perduto: forse vedere Homer e la Madre superiora che comunicano attraverso le rispettive copie della Bibbia (scena memorabile), o assistere alle lezioni serali d’inglese impartite alle suore dal giovane non strapperanno l’ammirazione delle platee odierne, ma la placidità di queste sequenze accende in tutti un pensiero di ammirazione per la semplicità e la limpida simpatia di un discorso senza inutili sottintesi.

La spina dorsale del film è proprio l’incontro fra due mondi così distanti eppure vicini nella povertà, nel senso di adesione alle cose umanamente istintive quali la fede, l’accondiscendenza verso il disagiato, lo spirito di gratuito sacrificio. La costruzione della Cappella cui il giovane viene quasi costretto dalla teutonica intransigenza della suora, sarà il palcoscenico per affinare le psicologie di tutti. Homer si lascerà bistrattare dai modi rudi di suor Maria poiché flessibile nelle proprie inclinazioni (nonché tacitamente affascinato e gratificato dall’importanza che riveste il suo ruolo). La Madre diverrà dal canto suo sempre più ostile, nell’imbarazzo che le affiora dalla gratitudine e dall’affezione, ripiegando dunque ad ogni occasione su un sibillino apprezzamento esclusivamente rivolto alla divina provvidenza (quest’ultima resa credibilmente nel suo testardo nascondimento dietro alle opere degli uomini).

Un fugace ricordo va a due figure comprimarie: il burbero barista che non possiede il dono della fede, e il prete che vive in una roulotte e dice messa, suggestivamente, sullo sterrato di un parcheggio in mezzo alla polvere degli aridi territori del sud. Sidney Poitier sarà il primo uomo di colore (la prima donna fu Hattie McDaniel già nel ’39 per la Mami di “Via col Vento”, Victor Fleming)  a vincere l’Oscar per la sua interpretazione di Homer e, in effetti, osservandolo sullo schermo il pensiero corre all’America di quegli anni, ancora così sbilenca sul tema del razzismo: la Civil Rights Act, legge che abolisce la segregazione razziale, verrà sancita soltanto l’anno seguente, nel 1964. Nemmeno cinquant’anni fa.



IL RITO
17 marzo 2011, 12:35 PM
Filed under: Cattolici, Di ispirazione

(The Rite)

USA 2011, di Michael Håfström, con Anthony Hopkins, Colin O’Donoghue, Alice Braga, Toby Jones, Ciarán Hinds, Marta Gastini…

Ogni film che voglia appartenere al genere demoniaco/esorcistico deve, per un principio di coerenza contestuale, coinvolgere una larga parte del repertorio significante cattolico. Quando capita il film merita di entrare a far parte dell’elenco de La Luce in sala. Il “sottotesto” teologico (virgolettato perché tale solo nel frangente cinematografico) è stato tirato coraggiosamente in ballo per la prima volta nell’insuperato L’Esorcista (Friedkin, 1973), poi nel vibrante L’Esorcismo di Emily Rose (2005, Scott Derrickson) e, infine, lo dico con entusiasmo, ne Il Rito. L’enorme potenziale immaginifico e traumatico che si dispiega istantaneamente dalla figura di Satana solletica frequentemente il genere horror, dando l’occasione a una tipologia cinematografica assai dissonante rispetto al nucleo di valori cattolico, di tracciare (quando si ha l’intuito per la costruzione di un discorso propositivo) un’apologia della Chiesa Cattolica e del cattolicesimo tout court. Se Il Rito accusa segni di stanchezza rispetto ai predecessori, sul piano creativo e della tensione, non difetta minimamente di superficialità o ripetizione per quanto concerne l’impianto religioso che sta dietro a qualsiasi trattazione plausibile del tema satanico. Michael Kovak, giovane americano che rifugge il destino di impresario funebre, sceglie il seminario per sfruttarne la componente formativa, pensando di ritirarsi appena prima di prendere i voti essendo, per natura ed esperienza, poco propenso al pensiero fideistico. Farà seguito alla sua lettera di dimissioni l’invito a partecipare a un corso formativo per esorcisti a Roma della durata di alcuni mesi. Nel cuore del mondo cattolico, palesando un comprensibile scetticismo, verrà indirizzato presso l’antro di padre Lucas, dove l’azione diretta del demonio gli sarà di stimolo per scalfire i propri dogmi e capire che la verità non deve, come dice il poco ortodosso esorcista, coincidere forzosamente con la certezza. Il film alterna momenti di grande interesse (soprattutto nella prima metà) ad altri che sanno inevitabilmente di già visto o, peggio, di grossolano. Si risponde soprattutto un po’ troppo alla legge del pittoresco, utile per impostare una suggestione, un’atmosfera ma che, a lungo andare, crea uno strano senso di artificiale se non di risibile. L’ospedale dell’anteguerra e l’antro cadente di padre Lucas (anch’egli alquanto atipico nel suo romitaggio che sa di outsider) depistano la narrazione, pur esteticamente ineccepibile, dal suo intento di plausibilità. Divertente anche l’aula high tech della classe di esorcismo: in America evidentemente (lo si era già visto in quel film dove Tom Hanks rimane bloccato nell’Archivio Vaticano) è irresistibile l’idea di sovrapporre al mistero religioso e all’aura di importanza e di autoritaria consapevolezza della Chiesa, i misteri dei servizi segreti o della Nasa. Ma veniamo adesso al nocciolo della questione. Ritengo che il tema dell’esorcismo venga trattato con la dovuta delicatezza, problematizzato e contestualizzato in modo abbastanza veritiero. Si nota l’attenzione al parere di veri esorcisti (ricordo che il film è tratto dall’omonimo libro inchiesta scritto da Matt Baglio) nel descrivere pratiche e fenomeni, ed è chiaro che un tema già ampiamente sviscerato guadagna in quest’occasione un ulteriore corollario di concetti vivi quali ad esempio la familiarità che si viene a creare fra esorcista e posseduto, la non esagerata spettacolarità della possessione (sbandierata subito alludendo all’ingombrante prova friedkiniana), la testimonianza sul “come sia” essere posseduti, l’incredulità (non gratuita, ma scientificamente disincantata) che diviene principio attivo di un utile approfondimento.

Nonostante tutto questo sono convinto che il vero valore del film non stia nel dimostrare che certe incredibili pratiche “medievali” sono ancora in corso ogni giorno con effetti che tutti potrebbero riscontrare, non sia quello di dare voce a una Chiesa che agisce scientemente in un campo doloroso dove la scienza risulta smarrita, ma bensì trascrivere il percorso interiore di un giovane d’oggi che, attraverso il male, prende coscienza di un sistema che aveva istintivamente respinto. Con i soliti meccanismi volti a enfatizzare l’uno o l’altro passaggio interiore (spettacolarizzando) Michael cede al trascendente invisibile. Ciò che vede paradossalmente (è qui il difficile del discorso) non testimonia Dio, ma la sua “assenza”, ed è proprio da questa, una conoscenza per assenza, in negativo, che sente un umanissimo urgente richiamo al Padre. Insomma, Il Rito ha più di un difetto, forse poteva essere l’occasione per qualcosa di assai più memorabile, ma non va dimenticato che ci parla onestamente della nostra fede, che difende e restituisce dignità alla Chiesa Cattolica dinnanzi a un mondo che troppo spesso, come accade nella scena più significativa del film, non perde occasione per sputarle addosso.



VOGLIO ESSERE PROFUMO
7 febbraio 2011, 11:21 am
Filed under: Cattolici, Di ispirazione, Film

(Voglio essere profumo)

It 2010, di Filippo Grilli, con Fabio Sironi, Marta Filippi, Lorenzo Pozzi, Simone Farina, Giulia Trabucco, Alberto Crippa…

Lo devo veramente ammettere: quando ho visto il trailer di Voglio essere profumo pensavo di approcciarmi a qualcosa di sperimentale e tecnicamente approssimativo. Con ogni entusiasmo mi sono interessato al progetto, pensando che nello scriverne un’eventuale recensione avrei dovuto insistere nell’elogiare soprattutto l’iniziativa in sé, lo spirito soggiacente all’operazione, la buona volontà delle persone coinvolte. Pensavo, in sostanza, che la forma fosse meramente accessoria al significato e per forza di cose trascurabile, o peggio, contrappeso inversamente proporzionale alla nobiltà del messaggio. Chi ha già visto il film capirà la mia sorpresa nel realizzare come, alla faccia di un budget risicato, la cura amorevole di un regista possa bastare a sé stessa. Si nota come il montaggio renda buon servizio a un girato sapiente, che ha selezionato in modo accurato ogni inquadratura, ogni elemento della sintassi cinematografica in funzione di un discorso fluido, ritmicamente ineccepibile. Se non si è potuto spendere molto per le scenografie ci si è rivolti a paesaggi mozzafiato e ad ambienti reali che in più di un’occasione mostrano bellezze nascoste, o che più semplicemente si era smesso di guardare. Se non ci sono grandi nomi fra gli interpreti non è solo per motivi di caché, dato che chi si è speso qui l’ha fatto pro bono, ma perché i volti di ragazzi di tutti i giorni avrebbero reso genuino un discorso che si rivolge proprio a loro: i ragazzi di tutti i giorni. Ancora sugli attori dovrei dire che a tutti è riservata l’occasione per almeno un pezzo di bravura, spesso portato avanti con convinzione; talvolta qualcuno cede, ma posso dire che si sono visti alcuni personaggi che potrebbero suscitare le invidie di produzioni ben più altisonanti.

A costituire un gran punto forza è la sceneggiatura: la storia si dipana tranquilla, descrivendo in modo assolutamente reale tante situazioni che vanno dallo scomodo (la castità giovanile, il tema della convivenza) al particolare (il rapporto tra due fratelli entrambi seminaristi, una suora “in prova” che lascia ai dubbi il loro spazio), al tradizionale (le relazioni amorose, le rotture, le conferme sentimentali). Non ci sono mai momenti retorici nonostante sia chiaro il timbro evangelico della trama: l’una o l’altra conclusione fluisce direttamente dalla storia, o da ciò che un promettente sacerdote suggerisce senza dialoghi esausti, senza ovvietà o forzature. In questo senso è un vero gioiello. Sarà poco credibile l’obiettività di un credente? Probabilmente, e dunque vale la pena sbilanciarsi in questo senso: chi è lontano dalla vita parrocchiale potrà sentire, senza edulcorazioni, come l’aria all’ombra del campanile sia salubre ancora oggi. Chi da piccolo ha frequentato le attività estive parrocchiali se ne sentirà risvegliare un ricordo commovente e chi, soprattutto, da molto non scambia una parola con un sacerdote, ne sentirà la nostalgia e forse perfino il conforto virtuale. Tutto questo perché il film è storia che intrattiene e strumento di catechesi assieme; richiama con forza un sistema di valori oggi spesso biasimato, spingendoci verso una riflessione che interroga sulla sostanza dei “progressi” sociali raggiunti oggi.

Di contro, trovo che la colonna sonora in un paio di momenti (e solo in questi, essendo di grande delicatezza), tenda a distrarre imponendosi sul racconto, e che l’incipit e la conclusione della narrazione eccedano in simbolismo, comunque scusabile viste le esigenze celebrative dalla trama. Ometterei una sinossi più accurata rimandandovi a un post di qualche tempo fa, per passare ad alcune veloci riflessioni conclusive. Vorrei elogiare la forte novità di un prodotto come Voglio essere profumo, che filtra il quotidiano nella religione, che parla di Chiesa senza parlare di storia di papi, e di sacrificio senza scomodare i grandi nomi del calendario. Francesco (figura ispirata al compianto seminarista Alessandro Galimberti) diviene in qualche modo, a partire dall’eroismo semplice di ogni giorno, simbolo del sacerdote antonomastico che chiarisce, dopo i difficili tempi di scherno confusione e dramma, cosa renda un ministero così lusinghiero e difficile, legittimo e necessario ogni giorno di più. La Gpg Film opera sul doppio registro della fede nel fare e nel mostrare, cosicché non solo il film diviene brano vivo di verità da diffondere, ma diario di una fatica umana condotta gomito a gomito fra persone che hanno inteso, girandolo, applicare sin dall’atto creativo quanto mostrato nelle immagini, con una sinergia fra spirito ed azione che diviene, così, la più grande ed efficace fra le garanzie di qualità. Da vedere. (Ringrazio il Sig. Giancarlo Grilli per aver reso possibile questa recensione.)